Nel giorno in cui tutti elogiano Enrico Letta per la battuta caustica e grintosa pronunciata ieri nella riunione del gruppo del Pd contro i “fighetti” che “si fanno belli su twitter”, dissentendo dal partito nei voti di fiducia sulle Larghe intese, oggi vorrei tessere l’elogio del “fighetto”.
E non solo perché mi è simpatico Pippo Civati, che secondo tutti è il simbolo e il bersaglio principale di questa invettiva: ma, soprattutto, perché vedo il rischio di un grande conformismo che appiattisce ogni cosa dentro quello che fino a ieri era il campo del centrosinistra. Per carità, va registrato come una rivoluzione del costume il fatto che un premier bacchetti i suoi deputati imputandoli di essere web-vanitosi. Ma la politica ha ragioni più complesse, anche in questi tempi un po’ strani, e la battuta di Letta è in realtà una scorciatoia: una stoccata perfetta per occupare i titoli dei giornali che però nasconde un problema politico.
Il problema è questo: in una Camera in cui il solo centrosinistra ha la maggioranza assoluta, e in cui il governo delle larghe intese può contare su più dei due terzi dei voti, il dissenso di uno, due, o dieci deputati non può e non dovrebbe rappresentare un problema: e chi non vota la fiducia, come Civati, sembra molto più una mosca bianca che un “fighetto”. Possibile che sia la sua esplicitazione su Twitter a rendere questo dissenso così deflagrante?
È la seconda volta che twitter sale sul banco degli imputati in questa legislatura: nei giorni dell’elezione del presidente della repubblica, ebbe un ruolo determinante nell’affondamento della candidatura di Franco Marini. In quelle ore il nome dell’ex presidente del Senato era l’argomento più dibattuto su questo social network e il più affettuoso dei commenti diceva che Marini fosse un vecchio arnese.
All’epoca si disse che quell’ondata di opinione sul web aveva cambiato la storia e spinto i giovani deputati del partito Democratico a votare contro l’indicazione del loro segretario. Era vero. Ma non necessariamente negativo: la politica si sta abituando, con qualche trauma, al fatto che la rete sta di nuovo accorciando la catena del consenso, e che indietro non si può tornare.
Adesso, invece, accade ancora di più: Letta accusa Civati (e i suoi emuli meno noti) non solo di essere schiavi dell’approvazione dei loro follower sul web, ma addirittura di modulare le loro azioni per poterle poi raccontare sui social network. Letta – fra l’altro – non è un arcigno nemico della modernità, ma uno dei primi leader che ha fatto un uso strutturale e metodico di twitter. Quindi il premier sa di cosa parla, e sa quanto possa essere forte internet come veicolo di dissenso.
L’immediatezza e la viralità di questo strumento, insomma, rendono noto a tutti o potenzialmente noto a tutti quello che fino a ieri era noto solo a pochi addetti ai lavori. Basta un tweet, ad esempio, per rivelare come ha votato un deputato, e raccogliere in diretta consensi o dissensi su questa scelta. Bene, credo che l’eventuale narcisismo dei Web fighetti sia un prezzo molto limitato rispetto alla ricchezza del confronto democratico che il tempo della rete sta portando nella politica italiana. Meglio un dissidente twitter animato dal desiderio di farsi notare grazie all’uccellino che 300 conformisti “analogici” dominati dalla paura di farsi riconoscere per colpa del Porcellum.