Falegnami, pasticceri, sarti: i laureati si reinventano

Artigianato e tecnologia

Scalpello e pialla, bottoni e macchine da cucire, ma anche impastatrici e sac à poche. Tutti strumenti di lavoro di mestieri che ormai sono in pochi a voler fare. Da un lato una disoccupazione che sfiora il massimo storico dal 1977 e tocca quota 12,8%, dall’altro professioni che nessuno sceglie. Che richiedono sforzo fisico, propensione imprenditoriale, turni, una dedizione che va sommata alla passione.

Secondo un’indagine della Fondazione consulenti del lavoro pubblicata a maggio, sono ben 150.000 i posti di lavoro disponibili, cosiddetti “lavori in piedi”, per i quali è complicato trovare persone da assumere. Dal falegname al sarto, dal pasticcere al panificatore, passando per il cameriere, il macellaio, l’installatore di infissi, l’infermiere. «Persiste in Italia il mito della laurea a ogni costo», spiega Rosario De Luca, Presidente Fondazione studi consulenti del lavoro, «ma senza reale prospettiva di lavoro perché legata a settori saturi. Occorre ripensare alla formazione, rivalutando gli istituti professionali o l’apprendistato, rivedendo un sistema universitario che abbia al centro il futuro lavoratore e non le esigenze degli atenei».

Tra i mestieri più snobbati, quello del falegname. Sarà per il sapore antico che porta con sé, fatto sta che a rimanere scoperto è il 17% delle posizioni aperte. Di sacrifici ne richiede tanti, oltre a un mix di precisione e creatività, e voglia di imparare sul campo. Come ha fatto Maurizio Bresesti, 32enne della provincia di Sondrio e vicepresidente del gruppo giovani di Confartigianato Sondrio, che da nove anni ha avviato la propria falegnameria a Brema. Da piccolo il nonno, che era fabbro, gli ha insegnato a riconoscere il legno e lavorare scodelle. Dopo il diploma di Tecnico dell’industria del mobile e dell’arredamento e lunghe gavette nelle falegnamerie locali, la scelta a 24 anni di avviarne una ex novo.

«Ho iniziato in un garage di 70 mq prestando manodopera per terzi. Nel frattempo, con una combinata, cioè una macchina che comprende in sé cinque funzioni, ho realizzato la prima cucina e mi sono spostato in un laboratorio grande il doppio e sostituito la combinata con macchinari separati». Per i soldi, l’aiuto è arrivato da Artigianfidi: «Senza l’avviamento di 15.000 euro e l’appoggio di Confartigianato non avrei potuto iniziare, la banca non mi avrebbe finanziato. Con quella cifra non ci si paga neppure il furgone, si sa, ma qui si dimostra la propria imprenditorialità. Io ogni anno ho investito in nuovi macchinari».

Di strumenti, oggi, se ne trovano molti usati, quelli delle imprese che hanno chiuso: una foratrice, che di norma costerebbe 25.000 euro, di seconda mano costa 5.000, così come una combinata usata. La crisi, tuttavia, si sente: ritardi nei pagamenti specialmente nell’ultimo anno, e assumere apprendisti è proibitivo. E per farsi conoscere? Il digitale è la nuova frontiera: «Da tre anni uso Facebook, Twitter, Google+ che fanno da vetrina sempre aggiornata, e ho un sito che è la mia brochure. Il mercato di potenzialità ne offre: «Sta tornando la cultura del saper fare accanto a quella dell’istruzione anche universitaria, che è sempre un valore aggiunto. In questo settore, oggi, per chi vuole lavorare bene, con passione e sacrificio, lo spazio c’è».

Altro mestiere che attrae poco è quello del pasticcere, per il quale si calcola un 15% di posizioni non ricoperte. Secondo un’elaborazione di maggio 2013 dell’Ufficio studi confartigianato su dati Unioncamere-Movimprese, le imprese di pane e pasticceria fresca sono cresciute, nel 2012, dell’1,32% per una cifra complessiva di 319 realtà in più su 24.461 aziende registrate a fine anno. Un mestiere, quello del pasticcere, che richiede sveglia all’alba e attenzione alle dosi. Eppure, anche tra i giovani e i laureati, c’è chi lo sceglie. Come Lucia Cotugno, 28 anni, una laurea in Economia, un master in Management, un breve passato da impiegata nel settore moda, e poi pasticcera. Qualche numero: 250 uova e 30 chili di farina a settimana, tre dipendenti part time a tempo determinato, porte aperte 365 giorni l’anno. E una pasticceria che sembra un gioiellino, nel cuore di Brera, a Milano: Di viole di liquirizia. Oltre a un primato: è stata la prima a portare i cupcakes e la pasticceria americana fresca nel capoluogo lombardo, quasi cinque anni fa. «Ho sempre desiderato qualcosa di mio, non ho potuto aprire un ufficio stampa e così ho avviato una pasticceria che fa anche catering per eventi di moda. Ho imparato osservando mia mamma, che è chef».

Certo, aprire una pasticceria da sè non è semplice come dirlo: «La burocrazia è lentissima, le regole rigide e numerose, dalla metratura dei locali all’altezza dei soffitti fino ai pannelli usati per allestire il locale. Oltre, ovviamente, allo stoccaggio dei prodotti e delle creme da etichettare con precisione, altrimenti sono 1500 euro di multa». Da imprenditrice a tutto tondo, oltre a preparare i dolci Lucia tiene la contabilità e fa promozione tramite Facebook: «Ogni volta che posto un dolce sulla pagina, 10 clienti arrivano per assaggiarlo», a dimostrazione che oggi il passaparola è sempre più 2.0, anche per gli artigiani.

E l’investimento? Per lei che ha scelto i migliori macchinari sul mercato, si parla di 450mila euro. «Recuperati in soli due anni, lavorando non stop. Normalmente, si recupera in circa 3-4 anni». Una cifra decisamente alta, ma non è detto sia l’unica possibilità per avviare una pasticceria. Silvia Vieri, ad esempio, ha 25 anni e ha appena aperto Dolci Peccati a Pontedecimo (Genova) investendo 30.000 euro. Un forno a 5000 euro, un abbattitore a 3000, scaffali a 700 euro e così via. «È una pasticceria di base, ma va benissimo così», spiega Silvia, che sforna torte e pancakes 7 giorni su 7 e, laureata in Ostetricia, dimostra che è possibile mettersi in proprio da autodidatta, trasformando una passione in lavoro.

E autodidatta lo è anche Mara Franchini, 33enne milanese laureata in Scienze Politiche e titolare dal 2005 di una sartoria per donna insieme a mamma Isabella, che le ha insegnato il mestiere. Abiti su misura, maglie, scamiciati: ogni anno l’atelier Ismara produce da 2000 a 3000 capi, realizzati a mano dalle due titolari, le due dipendenti e un’apprendista. Anche quello di sarta, tuttavia, è uno dei mestieri meno attraenti: sono oltre 2000 i posti disponibili. «Oggi in pochi vogliono fare questo mestiere perché non è “figo”», spiega. D’altronde, tenere in piedi una sartoria non è facile, tra atelier e punto vendita: «Bisogna partecipare alle fiere e contattare i negozi», aggiunge Mara, che gestisce da sé anche il sito e l’e-shop online, «e prevedere un investimento di almeno 50.000 euro, mentre una buona macchina da cucire costa sui 2000-2500 euro».

E tuttavia la qualità non basta per contrastare la crisi. Giuseppe Mezzatesta ha 39 anni ed è un sarto di Palermo che ha studiato alla rinomata Accademia nazionale dei sartori a Roma. Appena due mesi fa ha dovuto chiudere la sua bottega, dopo 10 anni di attività, schiacciato dalle tasse e dalla crisi. Quattro volte vincitore del premio Forbici d’oro della Regione Sicilia, attualmente si è riciclato come consulente tecnico nelle aziende occupandosi di controllo qualità. «Non è come fare l’artigiano, il mio mestiere mi manca», confessa. Per realizzare un abito, Giuseppe ci impiegava 46 ore; adesso, in azienda, viene confezionato in 80 minuti.

Tra i mestieri faticosi per definizione, e solitamente svolti da uomini, c’è quello del panificatore. In Italia sono 1040 i posti disponibili e non si copre il 39% delle posizioni vacanti. I turni, d’altra parte, si svolgono a notte fonda e all’alba, e le temperature del forno non sono certo invitanti. Eppure ci sono ragazze che fanno scelte controcorrente, come Agnese Malatesti, 35enne abruzzese e da anni a Roma, oggi panettiera presso Eataly. Laureata in Comunicazione, ha due master in ambito museale e marketing. Dopo anni da precaria nel settore culturale, ha seguito corsi di cucina e partecipato al programma tv Masterchef come concorrente. «Non è facile fare bene il pane», spiega, «e questo mestiere è fisicamente faticoso: si sollevano sacchi da 25 chili di farina e si lavora essenzialmente la notte, però non c’è paragone con il lavoro d’ufficio. Qui trovo soddisfazione vedendo ciò che ho impastato uscire dal forno. A fine giornata sono stanca, sì, ma di una stanchezza “sana”, senza stress».

Agnese lavora dalle 5 alle 13, poi ha la giornata libera da dedicare all’arte. Lo stipendio? Intorno ai 1500 euro, per chi è agli inizi, ma si arriva anche a 2500-3000 euro per panettieri esperti. «Per una donna questo ambito è più ostico: si pensa che a livello fisico una non ce la faccia. Ma non è così, con l’impegno si riesce». Che gli italiani snobbino il mestiere, però, è confermato: «Dove lavoro ci sono soprattutto panettieri stranieri, romeni e afghani. Italiani, pochissimi». Il suo futuro, Agnese lo vede in una panetteria o pasticceria, oppure in cucina: «Comunque, nel ramo della ristorazione, perché consente di sperimentare, cambiare e crescere». 

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