“I morti avevano colpi in testa, su gambe e addome”

“Morsi? Non si sa dove sia”

IL CAIRO – La strage del 26 luglio non ha trovato ancora una spiegazione univoca. Si è svolto a Rabaa el Adaweya un massacro della stessa portata delle stragi di Maspiro (ottobre 2011), Mohammed Mahmoud (novembre 2011) e Port Said (febbraio 2012). I Fratelli musulmani parlano di attacco indiscriminato della polizia e di piccoli criminali che ha causato oltre 80 vittime tra gli islamisti. Il ministero degli Interni punta il dito contro la Fratellanza e il suo tentativo di occupare il ponte 6 Ottobre che porta verso piazza Tahrir.

Nell’ospedale da campo di Rabaa. Le scene dopo il massacro sono inquietanti. Ci sono pietre dovunque su via Nassr: segno di una sassaiola notturna continua. Il gas impedisce ancora di respirare. Decine sono le motociclette e le autovetture incendiate. Secondo gli islamisti, sono il segno dell’avanzamento delle forze dell’ordine verso Rabaa al Adaweya. E così per protezione, gli affiliati dei Fratelli musulmani (ai quali si sono aggiunti una parte dei salafiti del partito al-Watan e delle gamaat al islameya, formando la Coalizione nazionale per la legittimità) hanno costruito una serie di basse mura di difesa.

Che si tratti di una protezione rudimentale dagli attacchi della polizia lo dimostra il fatto che queste linee di difesa sono costruite semplicemente da mattoni, divelti dai marciapiedi, che circondano il monumento commemorativo ad Anwar al Sadat. Un giovane, Mohammed, cerca di raccontarci la sua versione: «La polizia ha sparato. Insieme agli agenti hanno agito criminali (baltagya), ingaggiati dal Partito nazionale democratico. Hanno puntato su gente che pregava alle 3 e 30 della notte. L’esercito vuole trasformare l’Egitto in una nuova Siria».

Visitiamo l’ospedale da campo dietro la moschea. «A mezzanotte sono arrivati i feriti, raggiunti da colpi di arma da fuoco o svenuti per aver respirato gas lacrimogeni: il loro numero è cresciuto con il tempo», ci spiega il chirurgo Mustafa Ismail. «I morti avevano colpi in testa, alle gambe e all’addome. Alcuni di loro sono stati trasferiti in altri ospedali, qui abbiamo visto 40 cadaveri». I morti sono stati portati nella mattina di ieri all’obitorio di Sayeda Zeinab, dove di solito vengono raccolti i cadaveri di tutti gli scontri. Solo una visita in quelle sale potrebbe dare una risposta sul numero esatto delle vittime.

«Non avevano intenzione di avanzare, si trovavano all’altezza dell’Università di Al Azhar, alcuni feriti ci hanno raccontato di aver visto soldati sparare dai ponti». Mustafa, giovane ferito di 19 anni, ci racconta di essersi fratturato le gambe cercando di fuggire al lancio di gas lacrimogeni. Il medico Omar Mahfuz mostra una delle cartucce di gas, lanciate dalla polizia, si legge «Mm riot Cs smoke». Un altro medico Islmail Hashash conferma che «chi ha sparato lo ha fatto per uccidere». Il dottore ha una lunga esperienza in ospedali da campo, anche in Siria, e dice di non aver mai assistito a scene del genere. Poco più avanti entriamo nell’ospedale Tamim. Qui i feriti sono decine e decine, riempiono tre piani del nosocomio. Alcuni molto gravi, sono intubati e non coscienti, circondati dai loro familiari. Vediamo per la maggior parte uomini tra i 27 e i 38 anni, hanno subito gravi ferite all’addome e alla spina dorsale.

La grande manifestazione del 26 luglio. «Dio è più grande»: urlano gli islamisti della Repubblica di Rabaa quando gli aerei dei militari sorvolano sulle loro teste. Sono centinaia di migliaia, hanno occupato via Nassr: l’enorme arteria che ospita il monumento commemorativo ad Anwar al Sadat. Proprio il 26 luglio del 1952 gli Ufficiali liberi deposero il re Farouk: ora è arrivato il turno di Morsi, ma la resistenza non violenta della Fratellanza è snervante. A Rabaa, Morsi è ancora un eroe: poster sterminati dell’ex presidente ricoprono l’asfalto dove decine di giovani sono stesi o pregano. È tutto perfettamente organizzato, la divisione delle file tra uomini e donne; la distribuzione di blocchi di ghiaccio per raffreddare i crani picchiati dal sole. Intorno all’Università di Al Azhar dormono in decine, pochi giorni fa su questi spalti gli assassini di Sadat delle gamaat al islmayya, rilasciati nel 2011, avevano paradossalmente assistito alla commemorazione della loro vittima.

Rabaa el Adaweya sembra sempre di più una nuova «Repubblica islamica». Era il 1992, quando le associazioni islamiche universitarie, occuparono il quartiere di Embaba al Cairo e crearono scuole, radio, assistenza sociale, indipendenti dallo stato. Qui sta avvenendo lo stesso: a Rabaa non c’è polizia né esercito, le uniche incursioni dello stato avvengono con il passaggio a bassa quota di aerei militari. Rabaa ha la sua radio clandestina (Rabaa appunto) e la sua tv (Harrar 25, nata dalle ceneri dei 14 canali islamisti chiusi dopo il colpo di stato militare del 3 luglio scorso). Non solo, complice il Ramadan, è nato un sistema strutturato di distribuzione del cibo per l’iftar (la cena dopo la preghiera della sera che rompe il digiuno).

Un video al centro della piazza, a due passi dal palco dove si succedono continue testimonianze di sostenitori, mostra immagini di violenze e soprusi dell’esercito. Degli uomini, forse barbieri di mestiere, hanno sistemato specchi e tagliano i capelli a chi lo desideri, dall’ingresso posteriore si raggiunge un piccolo ospedale da campo. È da qui che di notte gli islamisti sono partiti per tentare di raggiungere, attraversando i ponti della città, le piazze occupate dai detrattori di Morsi.

Cresce però anche il risentimento di chi della «Repubblica di Rabaa» non ne vuol sentir parlare. Le lamentele per i disagi arrecati agli abitanti del quartiere aumentano. Qui non ci sono solo giovani ma migliaia di famiglie della classe media e della borghesia urbana. Alcuni portano al petto un’immagine di Morsi nell’atto di pregare. Sono arrivate anche le critiche di Amnesty International che ha parlato di «sparizione forzosa» per Morsi. In un comunicato Amnesty stigmatizza il ricorso a maltrattamenti, torture e elettroshock nei confronti di almeno 650 islamisti. Non si è fatto attendere neppure lo sfogo con i giornalisti della figlia di Morsi, Shaymaa, 32 anni: «È un vero e proprio rapimento, una violazione dei più semplici principi dei diritti umani», ha denunciato. Un altro figlio dell’ex presidente, Osama, ha puntato il dito contro il generale Abdel Fattah al-Sisi, a suo avviso, responsabile del «sequestro» del padre, promettendo di ricorrere alla Corte penale internazionale.

Il ministro dell’Interno Mohammed Ibrahim intende intervenire per sgomberare la piazza. Ibrahim ha anche annunciato che sarà ricostituito il Dipartimento per il controllo dell’attività religiosa e il terrorismo all’interno di questo ministero. Ma i Fratelli musulmani non hanno intenzione di mollare facilmente e resteranno a oltranza nella loro piccola Repubblica indipendente. 

Twitter: @stradedellest

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