Come ci ricorda padre Spadaro, sarebbe riduttivo considerare la tecnologia solamente frutto di una volontà di potenza e di dominio. Essa, scrive Benedetto XVI nella Caritas in veritate, «è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia». Anzi il Papa si spinge oltre e afferma che la tecnologia è sempre di più una questione antropologica, che coinvolge l’uomo nella sua interezza. Il vedere la Chiesa contraria e intimorita dalle nuove tecnologie è proprio un’ingenuità, oltre che un errore. Già nel 2005 Giovanni Paolo II dichiarava: «Non abbiate paura delle nuove tecnologie! Esse sono “tra le cose meravigliose” – inter mirifica – che Dio ci ha messo a disposizione per scoprire, usare, far conoscere la verità, anche la verità sulla nostra dignità e sul nostro destino di figli suoi, eredi del suo Regno eterno». E poi, come non ricordare il primo radiomessaggio dell’allora Papa Pio XI emesso dalla neonata Radio Vaticana. Siamo al 12 febbraio 1931 e il Papa benedisse la Radio – chiamata “mirabile invenzione marconiana” – con il seguente messaggio: «Benedici questa serie di macchine che servono a trasmettere nelle onde dell’etere, affinché, comunicando le parole apostoliche anche ai popoli lontani, siamo riuniti con te in un’unica famiglia».
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Per cogliere gli innumerevoli aspetti positivi e contenere – nel contempo – quelli negativi del digitale, serve dunque una cultura digitale costruita grazie a un vero e proprio approccio multidisciplinare. Se non si parte dalla creazione e diffusione di una vera e propria cultura relativa a un fenomeno così complesso, ogni addestramento tecnico, ogni alfabetizzazione, risulta completamente inefficace. Bisogna dunque ripensare alla formazione e alle competenze chiave da creare e a come situarle nel contesto. Oltre alla comprensione tecnica del mezzo digitale, vi sono dunque alcuni saperi la cui conoscenza risulta oggi particolarmente necessaria per consentirci di afferrare, prevedere e contestualizzare le potenzialità e le azioni di questa famiglia di tecnologie:
• fenomenologia: ci forza a riflettere sull’importanza del contesto e dell’essere situati; l’essere thrown in the situation (espressione usata da Winograd e Flores nel loro famoso libro del 1986) – e il concetto derivato di situatedness – discendono direttamente (tramite il concetto di Befindlichkeit) da Essere e tempo di Heidegger;
• etnografia: ci aiuta a stanare le potenzialità di innovazione senza forzare schemi pre-definiti; è infatti il metodo con cui operano le scienze etnoantropologiche quando fanno ricerca sul campo. Alcune (poche) aziende già le usano, ma questi metodi e tecniche di osservazione vanno re-introdotte in quanto sempre più spesso la mediazione linguistica – forzata dalle interviste e dalla compilazione di questionari preformattati – è sempre meno efficace nell’estrarre dai futuri utenti desideri, possibilità e timori resi possibili da tecnologie non ancora conosciute;
• sociologia: è la scienza che studia le strutture sociali, le norme e i processi che uniscono – e separano – le persone non solo come individui ma come componenti di associazioni, gruppi e istituzioni; per Zygmunt Bauman, la sociologia possiede un forte potenziale trasformativo, legato alla sua capacità di rovesciare il senso comune e di demistificare le apparenze;
• (etno)antropologia: è la scienza che studia l’uomo dal punto di vista sociale, culturale, fisico e dei suoi comportamenti nella società; in particolare l’antropologia culturale studia le differenze culturali di gruppi, mercati e nazioni, l’uso dei simboli e la strutturazione di usanze e rituali, tutti aspetti essenziali per comprendere i comportamenti nella rete e l’emergere di rituali e convenzioni;
• ermeneutica: ci ricorda che, nell’analisi della realtà, va adottato il suo presupposto (rovesciamento della metafisica razionalista): il tutto NON è dato e l’osservatore non è un semplice osservatore ma un vero e proprio attore che interpreta il contesto e lo modifica;
• semiotica: studia i fenomeni di significazione e comunicazione e consente di identificare i simboli di riferimento e le loro valenze e di scegliere gli strumenti linguistici e i segni più coerenti a uno specifico contesto comunicativo;
• psicoanalisi: per comprendere la formazione dei desideri (e dei timori), la dinamica delle pulsioni, i meccanismi di loyalty e gli archetipi di riferimento su cui costruire prodotti utili e significativi e comunicazioni efficaci;
• ergonomia e psicologia cognitiva: per identificare le principali barriere (fisiche, psicologiche, cognitive ecc.) all’utilizzo di prodotti e servizi e ridurne i costi di utilizzo associati;
• story-telling: per narrare – attingendo dalla storia, dalla letteratura e dai miti – storie appassionanti che coinvolgono il destinatario, raggruppando idee, fatti e oggetti apparentemente slegati in unità di senso e creando esperienze memorabili (e quindi facili da ricordare e piacevoli da ri-raccontare).
Va infine recuperata l’importanza della letteratura, che – tra le sue innumerevoli doti – è anche un potente aiuto per capire meglio l’uomo e le sue dinamiche; poiché la tecnologia digitale è un potente agente trasformativo, pone infatti una questione antropologica: come si trasforma l’uomo nell’era della rete? Per questo la grande letteratura può essere d’ausilio. Come ha infatti osservato il critico letterario Harold Bloom in un famoso articolo su Harvard Business Review rivolgendosi ai manager: «Poiché vi occupate di uomini, leggete i classici che l’uomo lo hanno costruito […]. La rappresentazione del carattere e della personalità umana (Shakespeare, Dante, Bibbia…) è il valore letterario supremo». Rincara la dose Tzvetan Todorov: «Essendo oggetto della letteratura la stessa condizione umana […] quale migliore introduzione alla comprensione dei comportamenti umani e dei sentimenti umani [ci potrebbe essere se non quella di] immergersi nell’opera dei grandi scrittori che si dedicano a questo compito da millenni? […] Quale migliore preparazione per tutte le professioni basate sui rapporti umani?». Anche il linguista Noam Chomsky è rimasto affascinato dal potere della letteratura: «È decisamente possibile – assolutamente probabile, si potrebbe pensare – che si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica».Sempre
Bloom ci ricorda che la letteratura è anche uno strumento validissimo per prepararci a gestire l’inatteso, a convivere con l’incerto: Credo che la letteratura sia portatrice di una fondamentale verità riguardo al cambiamento: il vero cambiamento si origina sempre dall’inatteso, sia esso derivante da una nuova conoscenza di se stessi o imposto da eventi esterni. Leggendo la grande letteratura immaginativa, ci possiamo preparare alla sorpresa e anche acquisire una sorta di robustezza che ci rende capaci di accogliere con piacere l’inatteso e trarne addirittura beneficio.
Poiché non conosceremo mai tutto, l’arte ci serve – creando rappresentazioni e facendocele vivere – perché ci insegna come convivere con il mistero. Solo l’artista può esplorare l’ineffabile senza offrirci una risposta, perché a volte non c’è risposta. John Keats chiamò quest’impulso romantico negative capability e disse che certi poeti, come Shakespeare, sono capaci «di essere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione». E le nuove tecnologie – quanto più sono rivoluzionarie – tanto più creano un mondo inatteso e spesso imprevedibile, dove serve anche molta immaginazione. David Levi Strauss, studioso del linguaggio fotografico e responsabile dell’Art Criticism and Writing Department alla School of Visual Arts di New York, sostiene: «Per entrare e uscire dai meccanismi dell’immaginario mi sono allenato studiando poesia».
Infine, osserva Remo Bodei ne La vita delle cose, «l’arte è in grado di restituire alle cose quei significati che sono stati erosi e ha, rispetto alla scienza, la capacità di “salvare i fenomeni” nella loro individualità, di reintrodurre significati e qualità secondarie, di rendere compiuto ogni fugace momento, sottraendolo all’inesorabile successione cronologica».
Il processo educativo deve anche contribuire a instillare il dubbio, suggerire percorsi di approfondimento e soprattutto aiutare a concettualizzare la propria conoscenza del digitale e cioè a meta-ragionare: staccarsi e osservare noi stessi nell’atto di ragionare sul tema. Infatti educatio indica l’atto di condurre a partire da, condurre fuori da, da cui la capacità riflessiva di astrarsi e guardare il processo – e se stessi – dal di fuori. Questo processo di astrazione è efficace quando lavora lungo tre dimensioni:
• riflessione, e cioè il ripiegarsi dentro noi stessi per capire quanto abbiamo veramente capito e riflettere criticamente sul processo stesso di apprendimento, che oggi è esso stesso oggetto di trasformazione e ripensamento grazie alle tecnologie digitali;
• messa in discussione delle credenze e soprattutto degli stereotipi, idee spesso sbagliate ma accettate acriticamente; comprensione della dimensione trasformativa – antropologica e sociale – delle tecnologie digitali che naturalmente coinvolge anche noi stessi che la osserviamo.
Solo dopo aver completato questo percorso, si può affrontare il tema della progettazione dell’intervento formativo e scegliere – in funzione delle specifico contesto – le metodologie didattiche, gli strumenti e i contenuti. Come osserva Gian Maria Zapelli nel suo Il formatore audace, è dunque necessario disincagliare il pensiero per renderlo in grado di ospitare un apprendimento nuovo e soprattutto non banale, creando in questo modo le condizioni per cui il pensiero riflessivo – strumento potente ma non sempre alleato dell’apprendimento:
• disveli ciò che omette, nasconde o non coglie poiché, come noto, tende a organizzare inconsapevolmente in una visione della realtà, una specifica selezione di fatti e giudizi;
• riveli una plasticità del possibile sperimentando connessioni, legami, interferenze, espansioni di ciò che è pensabile; sia nella conoscenza di sé, come pure nella rappresentazione della realtà;
• insedi abilità di pensiero nuove, grazie alla pratica di un legame tra percezione e parola, tra presa di coscienza ed espressione attraverso il linguaggio.
È in questo contesto che la cultura – intesa da Aristotele come «un ornamento nella buona sorte, un rifugio nell’avversa» – può darci un grande contributo. Zygmunt Bauman, in Paura Liquida, arriva addirittura a definirla come «un ingegnoso congegno che rende la vita vivibile, nonostante la consapevolezza della morte». Il suo contributo è proprio nell’affrontare le dimensioni problematiche, nel metterle al loro posto, nel dare loro il giusto peso. Ed è in questo contesto che ci aiuta anche la sensibilità che, come noto, è diversa dalle facoltà intellettuali e contribuisce ad aumentare le nostre capacità conoscitive in quanto intercetta e com-prende ciò che è percepibile e quindi conoscibile solo per mezzo dei sensi. Quando è assente, infatti, riduce la nostra comprensione, e quindi la nostra capacità di muoverci nel mondo. Inoltre attinge a risorse profonde costitutive del nostro corpo, attivando energia e volontà che moltiplicano la forza e la determinazione, soprattutto nei momenti difficili. Come osserva Dante ne Il Convivio:
Sì come la parte sensitiva de l’anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione […]. E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre secondo che li altri [il guidano, o] male [o] bene, così colui che è cieco del lume de la discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso.
La sensibilità può dunque creare una sorta di pre-disposizione, che ci consente di cogliere il meglio del digitale (e proteggerci dal peggio), andando molto al di là del semplice risultato di un addestramento o alfabetizzazione. Ma può anche contribuire a irrobustirci, proteggendoci da contesti complicati e stressanti, in quanto ci consente di attingere a energie profonde che risiedono all’interno del nostro corpo. Cuore e cervello si complementano dunque e si rafforzano; infatti – come osserva lo psicologo Jo Maddocks – «l’intelligenza emotiva è l’abilità di pensare a ciò che sentiamo e di sentire ciò che pensiamo».
La sinergia di questi due organi consente inoltre di soppesare il nostro livello di coinvolgimento fisico, emozionale e mentale nella situazione contingente, per evitare che parta il pilota automatico e ci conduca verso una direzione sbagliata. Infine l’energia emotiva ci spinge ad agire. Come afferma il neurologo Donald Calne, «la differenza sostanziale tra emozione e ragione è che l’emozione porta all’azione, la ragione a trarre conclusioni». La sensibilità si collega dunque al grande capitolo dell’intelligenza emotiva, dove lo psicologo Daniel Goleman ha scritto un libro seminale. Per attivare l’intelligenza emotiva ci sono diverse tecniche, sviluppate nel corso dei secoli:
• immaginare le cose – senza volerle necessariamente ridurre a pensiero razionale – mantenendone la loro ricchezza, spesso dovuta alla loro parziale indicibilità e spiegabilità, e immergersi nel loro ambiente per coglierne i nessi con il contesto;
• gustare l’esperienza, imparando a domandarsi se stiamo vivendo qualcosa di amaro, di dolce, di aspro, di troppo molle e – nel contempo – domandandoci perché quell’esperienza ha quel tipo di sapore;
• buttarci nella mischia, per vivere in prima persona l’esperienza e attivare i meccanismi difensivi più archetipici;
• creare occasioni di stress artificiale – che neutralizzano gli stereotipi cognitivi – per entrare in contatto diretto con l’intelligenza emotiva e abituarci a interagire con essa e a guidarla.
Oltretutto l’alfabetizzazione è la sgraziata traduzione di literacy che, in inglese, richiama la formazione umanistica del trivio (grammatica, retorica e dialettica) ma – nell’accezione italiana – si limita a un semplice richiamo della grammatica: i comandi elementari dei più diffusi strumenti digitali.
Come ultima considerazione è opportuno ricordare che la complessità della comprensione del digitale nasce anche da una sorta di loop – di vero e proprio ciclo vizioso – che queste tecnologie mettono in moto; infatti il digitale modifica il processo stesso di apprendimento e i suoi strumenti, creando una sorta di ciclo autoreferente: per esempio l’uso tradizionale del linguaggio testuale (strumento sia di espressione sia di apprendimento) si è fortemente modificato con la diffusione delle tecnologie digitali; la forma narrante da lineare si è trasformata in ipertesto; i paragrafi si spezzano trasformandosi in aforismi e forme brevi (chat, SMS ecc.) e riprendono l’antica forma paratattica; le parole si comprimono, perdendo le vocali eufoniche e sostituendo lettere alfabetiche con fonemi (THX = Thanks; CUL83 = See You Later); infine nascono le punteggiature emozionali, i cosiddetti emoticon đ đ . Pertanto il medium digitale condiziona e (ri)definisce gli stessi format espressivi che ospita e i conseguenti processi di memorizzazione e apprendimento.
Twitter: @andrea_granelli, @AngeliEdizioni
Andrea Granelli (con contributi di David Bevilacqua e Antonio Spadaro)
Il lato oscuro del digitale
FrancoAngeli, 160 pagine, 21 euro
*Andrea Granelli, già in McKinsey e amministratore delegato di tin.it e di TILab (società di Ricerca e Sviluppo del Gruppo Telecom Italia), è attualmente presidente e fondatore di Kanso, società di consulenza direzionale specializzata nei temi dell’innovazione e del change management. Ha diverse pubblicazioni su tecnologie digitali e innovazione, tra cui Il sé digitale. Identità, memoria, relazioni nell’era della rete (Guerini, 2006) e, con A. Bonaccorsi, L’intelligenza s’industria. Nuove politiche per l’innovazione (Il Mulino, 2005).
La dimensione problematica della rivoluzione digitale – il suo lato oscuro – è oramai un tema ineludibile che va compreso all’interno delle più generali dinamiche dell’evoluzione tecnologica. Questo libro vuole innanzitutto contribuire a leggere il fenomeno nella sua articolazione e complessità per restituirne la ricchezza, l’applicabilità diffusa e anche la sua fascinosità, persino nelle dimensioni più critiche e criticabili. Ma il vero obbiettivo è contribuire a contrastare – non semplicemente riducendolo o esorcizzandolo – il crescente sospetto nei confronti della Rete e delle sue potenti tecnologie e il timore che le sue promesse non possano essere mantenute. Il tema non è recente ma, nell’ultimo periodo, la sua rilevanza è cresciuta con vigore.
Le inesattezze e falsificazioni di Wikipedia, il potere sotterraneo e avvolgente di Google, la fragilità psicologica indotta dagli universi digitali, il finto attivismo politico digitale svelato dall’espressione click-tivism, il diluvio incontenibile della posta elettronica, il pauroso conto energetico dei data centre, i comportamenti scorretti dei nuovi capitani dell’impresa digitale sono solo alcuni dei problemi che stanno emergendo, con sempre maggiore intensità e frequenza.
Che fare allora? Innanzitutto comprendere il fenomeno andando in profondità; non fermandosi alla superficie, spesso luccicante ma ingannevole. E poi (ri)costruire una cultura e una sensibilità al digitale, che ci diano indicazioni su come maneggiarlo e cosa non chiedergli.
Questo saggio di Granelli non vuole dunque offrire una banale alfabetizzazione, ma si pone come vera e propria guida che ci aiuta a cogliere le peculiarità di questo straordinario ecosistema e a guidarne le logiche progettuali e i processi di adozione, tenendo a bada le sue dimensioni problematiche, che vanno comprese e reindirizzate, e non semplicemente rimosse.