Le pari opportunità si realizzano anche attraverso le statistiche. Se ne sono accorti, come sempre molto prima di noi, i Paesi scandinavi, dove ogni rilevazione ufficiale è disaggregata per sesso. La Svezia lo ha imposto, con una legge, nel 2001. La Norvegia ne ha fatto, da tempo, una prassi.
La Spagna si è accodata nel 2007 con la Ley de Igualdad, la cosiddetta legge di uguaglianza. In Italia, invece, l’Istat spacchetta solo i dati su lavoro e occupazione. Per il resto poco o nulla sappiamo sulle disparità tra uomo e donna. Cosa che contribuisce a spiegare la recente e impietosa analisi di Banca d’Italia sulle politiche di genere nel nostro Paese. Nonostante una normativa ormai abbastanza avanzata paghiamo dazio alla scarsa effettività delle regole. Insomma, le leggi ci sono ma non vengono quasi mai applicate.
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La recente indagine di Banca d’Italia – Ricerche e analisi economiche su donne ed economia italiana – analizza la partecipazione femminile al lavoro e alla vita produttiva, le radici dei divari di genere e le conseguenze economiche. I risultati sono scoraggianti. Resistono forti divari nell’accesso al mercato del lavoro, nell’ascesa ai vertici delle imprese e nelle retribuzioni, che per le donne restano mediamente inferiori del 13% rispetto a quelle degli uomini. L’Italia, con un tasso di occupazione femminile al 47,1%, contro una media Ue a 27 pari al 58,6%, rimane lontanissima dall’obiettivo fissato dal Trattato di Lisbona, che ha indicato la soglia minima del 60%. Ciò fa perdere al Paese ingente ricchezza. Una maggiore partecipazione femminile alla vita economica garantirebbe infatti un balzo del Pil di 7 punti percentuali. Anche con una diminuzione della produttività media, quindi anche in uno scenario recessivo come quello attuale.
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Le cause, spiegano le ricercatrici Magda Bianco, Francesca Lotti e Roberta Zizza, sono molteplici. Da un lato c’è l’ostacolo della dimensione culturale, «con una discriminazione implicita che premia sul mercato del lavoro caratteristiche più diffuse tra gli uomini sebbene non rilevanti per il lavoro che viene svolto». Dall’altro lato «c’è il forte limite di un’organizzazione produttiva ancora troppo rigida, unita alla scarsità di strumenti di conciliazione». Poi in Italia ci si mette anche una tassazione poco amica delle donne, con un sistema di detrazioni, assegni famigliari, esenzioni dai ticket sanitari, che disincentiva il lavoro femminile. Per dire: la tassazione implicita, in una famiglia media con due figli a carico dove la moglie lavora part time, raggiunge per quest’ultima il 41,06%. E dire che in giro per l’Europa non mancano gli esempi della cosiddetta gender base taxation. A partire dalla Gran Bretagna che accorda un credito d’imposta alle famiglie nelle quali entrambi i coniugi lavorano.
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Le cose non vanno molto meglio per le donne ai vertici del sistema produttivo e finanziario, mosche bianche in un mondo dove il potere economico è ancora saldamente nelle mani degli uomini. E fino ad ora la legge sulle quote rosa nei Cda delle società quotate, entrata in vigore ormai un anno fa, non ha prodotto risultati significativi. La presenza femminile nei board alla fine dello scorso anno era ancora pari a un modestissimo 11%. Un ritardo che per Banca d’Italia è da imputare anche all’assenza di una dimensione di genere nelle politiche dello Stato. Non solo mancano statistiche disaggregate. È di fatto completamente assente anche il gender budgeting, principio in base al quale anche le scelte di spesa pubblica devono essere indirizzate alla rimozione delle disparità.
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Non aiuta il sistema scolastico, inadeguato a contrastare stereotipi e ineguaglianze. Mancano per esempio l’insegnamento e la ricerca sul tema della parità fra i sessi. Un grande vuoto che la Spagna, citata come best practice da Banca d’Italia, ha riempito nel 2007 prevedendo una specifica formazione per gli insegnanti, corsi di specializzazione e una revisione di tutto il materiale didattico. Mandando al macero ogni testo anche solo vagamente sessista.
Twitter: @NatasciaRonchet