In Italia anche se lavori rischi di restare senza soldi

Siamo ancora il secolo del lavoro?

Una delle cose che colpisce di più, negli ultimi dati diffusi dall’Istat, è la percentuale di persone  definite «povere» anche se in possesso di un lavoro.

L’11,8% dei poveri relativi in Italia, cioè chi vive con meno di 990 euro circa al mese, ha un lavoro da dipendente. Il 10,8 si definisce «occupato», il 9% ha un lavoro autonomo, l’11,9% è un lavoratore in proprio.

È quella che Walter Passerini, autore insieme a Mario Vavassori del volume Senza soldi (Chiarelettere, 2013), chiama la “questione salario”: «La povertà oggi intacca anche coloro che hanno un lavoro, operai e impiegati bassi, per lo più, ma anche giovani con lavori intermittenti e senza continuità di stipendio». 

Italia e povertà: quale scenario si delinea?
Gli ultimi dati ci parlano di una riduzione del lavoro in termini quantitativi, e di conseguenza di una diminuzione della massa salariale. Dal 2008, quindi, con la disoccupazione è calato il valore complessivo delle retribuzioni, con un effetto negativo in primo luogo sulla propensione ai consumi. Ma è aumentata anche la quota di povertà assoluta, cioè di chi vive da single con meno di 660 euro, in coppia con meno di 990 euro e in quattro persone con meno di 1600 euro al mese. In tutto quattro milioni e mezzo circa di italiani. Poi ci sono altri due aspetti nuovi: quello dei working poor, cioè italiani che pur mantenendo uno stipendio sono diventati poveri. E quello di chi riceve gli ammortizzatori sociali, perché con la nuova Aspi, in vigore dal primo gennaio 2013, il contributo per chi perde il lavoro è diventato bassissimo. 

Nel suo libro – che inizia con la citazione dell’articolo 1 della Costituzione – parla di perdita del valore del lavoro. Cosa è successo?
Negli ultimi 15 anni il lavoro ha perso valore economico, politico ma anche culturale. Se per i nostri padri era parte fondante dell’identità, oggi il cittadino è più consumatore che lavoratore. Le cause sono molteplici. Innanzitutto perché si è scelto di non investire nello stipenidio dei dipendenti. Negli ultimi dieci anni il potere d’acquisto del salario di un operaio è sceso del 9, 10 per cento. Poi sono stati promossi meccanismi di ascesa sociale diversi da quello del lavoro: la furbizia, l’evasione fiscale. E infine la finanza: il lavoro reale è stato sepolto da un’economia finanziaria in cui è sufficiente investire sul mercato speculativo per fare soldi. 

E poi c’è il tema disuguaglianza: la ricchezza si distrugge ma non in modo omogeneo.
Il lavoro esecutivo è stato quello più bastonato: operai, ma anche i quadri dirigenti dei middle manager, decine di migliaia che hanno perso il lavoro. Il libro Senza soldi nasca da una doppia indignazione. Quella per il lavoro sottopagato da un lato, e quella per la crescente disuguaglianza dall’altro. Una disuguaglianza che è generazionale perché i nostri giovani guadagnano il 30% in meno dei coetanei dei Paesi Ue più avanzati. Ma è anche di genere: le donne guadagnano il 27% in meno degli uomini a parità di mansioni. E poi è una disuguaglianza tra ruoli professionali: ci sono amministratori delegati che guadagnano 400 volte lo stipendio dell’ultimo operaio. 

È possibile individuarne le ragioni?
Alla base c’è un meccanismo autorefereziato dei top manager, unito al disprezzo per il lavoro esecutivo di basso e medio livello. Nel 2012 i 100 top manager più pagati d’Italia, a capo delle principali aziende italiane quotate in borsa, hanno guadagnato 400 milioni di euro, quattro milioni a testa. E molti di loro gestiscono aziende con bilanci in rosso. Ci sono manager che hanno saccheggiato le loro aziende assicurandosi bonus, stock option, e buone uscite di 14-15 milioni l’anno. 

Come se ne esce?
Servono misure di tipo pratico, economico. E una di tipo culturale. Bisogna per prima cosa intervenire sui redditi più bassi, quelli più gravati dalle aliquote fiscali. Dobbiamo intervenire sul cuneo fiscale. Abbiamo gli stipendi netti più bassi d’Europa e il costo del lavoro più alto. Terza cosa dobbiamo aumentare la “paga” di chi perde lavoro: dal primo gennaio è entrata in vigore l’Aspi, che riduce il tempo massimo degli ammortizzatori sociali a 18 mesi massimo (prima arrivava fino a quattro anni) e il loro valore, portato sotto i 1000 euro. Bisogna intervenire sul meccanismo che relaziona salario fisso e variabile, passando da un rapporto di 97 a 3 ad almeno un 80 – 20. E infine occorre aprire una discussione sul reddito minimo garantito per coprire le soglie di povertà ed evitare gli abusi dei lavoratori. 

È fiducioso che ce la faremo? 
Sì, per due motivi: intravedo segnali positivi dalle aziende, e confido nella Ue. I nostri distretti, ad esempio, non se la passano così male. In particolare, le aziende che hanno imparato a rivolgersi soprattutto all’estero stanno godendo di una ripresa che fuori Italia si è già messa in moto. Solo quelle che hanno un mercato prevalentemente italiano arrancano e sono a rischio. E poi dico, meno male che c’è l’Unione europea. Nel 2014 ci saranno le elezioni europee e nel luglio dello stesso anno l’Italia avrà la presidenza dell’Ue. Dobbiamo imparare a spendere bene i fondi che l’Ue ci mette a disposizione. Dei 55 miliardi di euro stanziati negli ultimi sette anni, ne abbiamo spesi solo 25, trenta sono rimasti sul piatto. L’anno prossimo ci sarà lo stanziamento per i prossimi sette anni. Cerchiamo di sfruttarli al meglio.  

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