La fine di Morsi per Usa ed Egitto “non è un golpe”

Le reazioni caute da parte di Obama

Nella notte tra martedì e mercoledì il segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel ha chiamato ripetutamente il ministro della Difesa e capo delle Forze armate egiziane Abdel Fattah el-Sisi. Già nelle ore in cui i militari hanno imposto l’ultimatum per risolvere la crisi, i contatti tra leader politici e militari degli Stati Uniti e i loro omologhi egiziani sono stati continui.

I militari egiziani e il filo diretto con Washington. Alla notizia degli arresti domiciliari, imposti al presidente egiziano Mohammed Morsi e a tutta la classe dirigente dei Fratelli musulmani, il tentativo estremo di difendere la sua «legittimità» elettorale sono stati accolti con una certa preoccupazione da Washington. Era il 28 gennaio 2011 quando il presidente Barack Obama, il segretario di Stato, Hillary Clinton, e i dirigenti militari americani in contatto continuo con il maresciallo Hussein Tantawi avevano scaricato l’ormai ingombrante rais Hosni Mubarak e dato il via libera al primo colpo di stato militare, conclusosi con il passaggio di poteri a Morsi il 30 giugno 2012. Quella notte la polizia, controllata dal ministero dell’Interno e dal Partito nazionale democratico spariva dalle strade egiziane, e i carri armati facevano per la prima volta il loro ingresso dopo il 1952 alle porte di tutti gli obiettivi sensibili, i luoghi pubblici e le principali piazze del paese.

Il colpo di stato che ha destituito il presidente Morsi è iniziato proprio con l’avvicinamento dei carri armati al palazzo della televisione di Stato (Maspero) a due passi da piazza Tahrir. Qualcosa questa volta però non è andato come le autorità statunitensi si aspettavano: Obama ha atteso ore prima di commentare. E in una lunga nota, senza mai parlare di colpo di stato, ha chiesto alle Forze armate di restituire piena autorità ad un governo civile democraticamente eletto, senza ricorrere alla violenza, evitando di perpetrare arresti «arbitrari». Detto questo, ha chiesto una transizione rapida e che il rivolgimento popolare non si trasformi in un vero e proprio colpo di stato. Al riguardo la legge federale parla chiaro: nessun aiuto economico potrà essere destinato a paesi il cui governo democraticamente eletto venisse deposto da un golpe militare. A rischio sono 1,5 miliardi di aiuti economici e militari all’Egitto.

«Le autorità statunitensi sembrano non sapere cosa fare e di non voler peggiorare le cose. Mantengono un’influenza sull’esercito eppure sono stati sorpresi: ormai l’ambasciatore americano in Egitto Anne Patterson aveva imparato a lavorare con i Fratelli musulmani. Come spiega il docente egiziano Khaled Fahmy, Washington ha pensato di dover lavorare con i partiti islamisti in Medio oriente perché hanno una grande capacità di mobilitazione elettorale. Hanno però constatato che non sono capaci di governare efficientemente», spiega a Linkiesta il professor Roger Owen, docente di Storia del Medio oriente all’Università di Harvard. .

L’anti-americanismo e il colpo di stato che non c’è. Era stato proprio Barack Obama con il suo intervento all’Università del Cairo nel 2009 a spingere l’acceleratore sulle riforme e la battaglia per diritti economici e politici in Egitto. In nome di quelle parole molti liberali erano scesi in piazza il 25 gennaio 2011. Ma con l’esercito al potere e il suo accordo con i Fratelli musulmani, un sentimento di anti-americanismo si è lentamente diffuso nel paese. In occasione della visita del Segretario di stato John Kerry nel marzo scorso, gli attivisti delle opposizioni hanno bloccato le strade del centro e la via verso l’aeroporto del Cairo, mentre i principali leader del Fronte di salvezza nazionale, che unisce i movimenti laici e nasseristi, si sono rifiutati di incontrare Kerry accusandolo di «ingerenza» negli affari interni egiziani. In una dichiarazione, qualche giorno prima, Kerry aveva chiesto al Fronte delle opposizioni di non continuare a boicottare il voto. Ma la diffidenza verso gli Stati Uniti appartiene anche agli islamisti che in discorsi e slogan hanno sempre criticato la presenza americana in Medio oriente, sebbene la leadership politica dei Fratelli musulmani sia apparsa impegnata nel dialogo con Washington, in continuità con l’approccio dell’ex presidente Hosni Mubarak.

«Certamente le autorità americane erano al corrente della decisione di arrestare Morsi. D’altra parte, Obama sa bene che neppure i militari sono stati in grado di gestire la precedente fase di transizione. Gli Stati Uniti hanno difeso Mubarak per anni, tentando di evitare che l’esercito interferisse. Quando l’esercito ha preso il controllo diretto in politica gli americani si sono espressi costantemente a favore di un governo civile. In generale agli Stati Uniti non piace l’idea che i militari controllino direttamente il potere», prosegue Owen.

La destituzione di Morsi però in molte capitali europee non viene raccontata univocamente come un golpe. In molti casi è stata rappresentata come una naturale conseguenza delle manifestazioni di piazza. Anche il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen non ha voluto parlare di colpo di stato: «Non è necessario mettere etichette adesso» – ha detto – auspicando la nascita di «un governo civile democratico ed inclusivo».

Eppure, le condanne più chiare sono arrivate dalla Turchia dove il premier Recep Tayyep Erdogan è contestato da settimane in manifestazioni di piazza. Il ministro degli Esteri turco Davutoglu ha definito «inaccettabile» rovesciare con un golpe militare un governo democraticamente eletto. Ma il più duro è stato il presidente siriano Bashar Al-Assad che ha assicurato che la fine di Morsi coincide con la chiusura della stagione dell’«islam politico». «È senza dubbio prematuro, gli islamisti, come insegna la rivoluzione iraniana, hanno una capacità di mobilitazione superiore ad ogni altro movimento. Credo poi che il colpo di stato militare sia arrivato troppo presto. Sarebbe bastato un altro anno al potere per dimostrare l’incompetenza dei Fratelli musulmani. Ora possono ancora presentarsi come dei martiri di sionismo e imperialismo. Non è ancora finita per loro», conclude Owen.

Il 3 luglio scorso, l’esercito egiziano ha arrestato il presidente eletto Mohammed Morsi, i principali leader dei Fratelli musulmani, a partire dalla Guida suprema Mohammed Badie. Ha poi sospeso la Costituzione e sciolto il parlamento. Come nel 2011, anche questa volta i militari hanno concesso una vittoria apparente alla piazza per favorire l’immediato ritorno dell’ordine. 

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