La lezione di Sartre: “La fratellanza cambia il mondo”

Intervista “inedita” a Jean-Paul Sartre

Giugno del 1978, quartiere di Montparnasse, Parigi. Il cielo fuori sembra plumbeo, una luce biancastra penetra debolmente attraverso le finestre anguste di un modesto appartamento. In realtà è il colore un po’ argenteo e luminescente delle foto scattate da un giovane fotografo brasiliano, Alécio de Andrade, per immortalare un incontro inusuale avvenuto in uno storico quartiere di Parigi.
Il Cimitero di Montparnasse, con le sue guglie gotiche e le cappelle funerarie che spuntano come funghi oltre il muro di cinta, è a due passi. La Rue Daguerre, con tutto il suo parterre di fruttivendoli, cremerie, pâtisserie e macellerie radical chic è anche a un tiro di schioppo mentre la Place Denfert – che anticamente era nota come Place d’Enfer (dell’inferno) perché vicina ad un maniero abbandonato che in epoca rivoluzionaria fu adattato a prigione di pazzi, criminali e pustolosi – domina la vista coi suoi leoni di bronzo.
L’entrata per le Catacombe di Parigi è proprio qui e vedere lunghe file di americani in infradito o di tedeschi con i loro shorts, i cappellini e le birkenstock coi calzini bianchi fa quasi ridere se si pensa che qui sotto si facevano sparire i nemici della rivoluzione, s’impiccavano i frondisti o si gettavano i cadaveri decomposti dei lebbrosi che neppure i medici dell’Accademia di Parigi osavano sezionare per la futura gloria delle scienze anatomiche.

Per chi non conoscesse il quartiere di Montparnasse basti sapere che da queste parti hanno abitato Picasso, Apollinaire, Chagall, Soutine, Diego Rivera, Modigliani, Giacometti, Salvador Dalì, Lenin, Man Ray, Ezra Pound, Marcel Duchamp, André Breton solo per fare alcuni nomi. Delimitato a Nord dal Boulevard Montparnasse, ad Est da Rue de La Santé, a Sud dal Boulevard Saint–Jacques e ad Ovest dall’Avenue du Maine, Montparnasse è stato il quartiere ritrovo di artisti, intellettuali e scrittori fino almeno alla seconda guerra mondiale. Negli anni ’60 cadde un po’ in disuso e si cercò di trasformarlo in un quartiere di commerci. L’edificazione della Torre di Montparnasse sta ancora oggi a testimoniare quella volontà e quella violenza urbanistica visto che la torre (bruttina) svetta noncurante e astiosa sui tetti color ardesia di ridenti casupole a tre o quattro piani della Rue de la Gaîté, dove dagli inizi del XX secolo fino al dopoguerra pullulavano café chantant, teatri e bistrot della belle époque parigina.
Costeggiando il muro coperto da edera rigogliosa del cimitero di Montparnasse sulla Rue Froidevaux e voltando a sinistra in Rue Schœlcher ci si può imbattere persino nell’ultima dimora di Simone de Beauvoir, che in questo quartiere c’è nata e ci ha vissuto a lungo fino alla morte. Sarà sepolta pochi metri più in là, oltre il muro di cinta del cimitero che per anni avrà contemplato dalla finestra della sua abitazione aspettando di raggiungere il compagno di una vita Jean Paul, già sepolto a poche decine di metri da lì. Ancora oggi passeggiando nel Cimitero di Montparnasse si può ammirare la tomba comune di due anime eccelse unite nell’eternità.

La Torre del quartiere di Montparnasse a Parigi in costruzione, il 12 novembre 1972 (Afp)

Dicevamo di un incontro, avvenuto in questo quartiere storico, il 12 Giugno 1978. Quattro ragazzi brasiliani: Eder Sader, Marco Aurelio Garcia, Heitor O’Dwyer e Alécio de Andrade.

Il primo, Eder Sader, fondatore del gruppo Política Operária (POLOP). Perseguitato dalla dittatura brasiliana, riparò in Cile dove fu uno dei dirigenti del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (MIR) e poi successivamente in Francia dove divenne un brillante sociologo ed insegnò all’Università di Parigi VIII.
Marco Aurelio Garcia invece s’era distinto fin da giovane nelle file del Partido dos Trabalhadores (il Partito dei Lavoratori brasiliano fondato, tra gli altri, da Luiz Inácio Lula da Silva) tanto da diventare prima consigliere del presidente Lula e poi dell’attuale presidenta Dilma Roussef.
Con loro c’era Heitor O’Dwyer de Macedo, militante in esilio e futuro psicanalista, e Alécio de Andrade, fotografo che lavorava presso la prestigiosa agenzia fotografica Magnum. Quattro giovani brasiliani dunque, giunti fino a qui per dare all’organo del Partito dei Lavoratori Brasiliano, il settimanale Em Tempo, nuovo slancio e diffusione, intervistando uno dei più grandi ed influenti intellettuali del Novecento: Jean Paul Sartre.

Un incontro in un modesto appartamento di Montparnasse dove Sartre all’epoca viveva, per parlare di partiti rivoluzionari, di fratellanza politica, della forza del femminismo. Un’intervista di cui fino ad oggi poco o nulla si sapeva ma che i buoni uffici di Heitor O’Dwyer de Macedo, nell’urgenza dell’attualità sociale e politica brasiliana, ha voluto far rispuntare fuori non a caso in un anno di sconvolgimenti epocali pari a quelli di cui fu testimone lo stesso Sartre. L’intervista fu registrata nel Giugno del 1978 ma potrebbe essere stata fatta nel Giugno 2013 dato che le lucide riflessioni dell’autore di L’Être et le Néant permettono di decodificare anche gli attuali movimenti di contestazione in Turchia, Brasile, Egitto. Il ’68 come trait d’union tra ciò che accadde all’epoca e ciò che accade oggi, un’epoca di cui Sartre parla per introdurre il concetto di “fratellanza” e di “amicizia” come strumento politico.

C’era infatti all’epoca, dice Sartre rispondendo ad una domanda, «un rapporto nuovo tra i giovani che facevano un tentativo non rivoluzionario ma d’installazione di ciò che desideravano». Per Sartre, il rapporto tra quei giovani che manifestavano era «un rapporto non più propriamente politico ma un rapporto di amicizia. Continua Sartre con la sua voce lenta e cadenzata:

Mi sono chiesto se il rapporto che la politica stabilisce tra persone, un rapporto formale da cittadino a cittadino, fosse davvero il rapporto che occorreva e se il vero rapporto politico non fosse piuttosto fondato su un rapporto d’unione tra individui ovvero sulla soppressione del rapporto propriamente detto “politico”, quello tra cittadino e cittadino. In breve mi sono chiesto se la natura della politica non fosse invece il rapporto profondo e libero di ciascuno a ciascuno esattamente come nei rapporti d’amicizia. 
Il rapporto che si genera nei meeting o nelle organizzazioni politiche e sindacali è quello buono? Gli uomini che sono legati politicamente tra loro, lo sono veramente, ovvero sono davvero uniti dal fatto d’essere uomini? Detto altrimenti: la politica è il solo rapporto possibile tra uomini e deve essere stabilita solo su basi formali ? C’è nei tre principi che hanno definito la realtà per noi francesi nel 1789 qualcosa d’altro: la fratellanza. Conoscerete i nostri tre principi: libertà, uguaglianza, fratellanza. A mio avviso è la fratellanza che deve essere all’origine dell’azione politica: ci si riunisce e si discute in merito all’azione da compiere in quanto fratelli. Questo rapporto, che è alla base del rapporto democratico, non è stato ancora realizzato anche se i paesi democratici d’Europa sembrano in cammino verso questa fratellanza. Ma non sono i partiti che realizzano tra i loro membri la fratellanza; i partiti realizzano solo una cittadinanza senza fratellanza. La fratellanza deve presupporre un altro tipo di comunione tra fratelli rispetto al partito. Il partito è, secondo me, una forma degradata del rapporto tra uomini. È un rapporto falso. La fratellanza è qualcosa di molto più potente tra gli esseri umani e si rivela ad esempio con la presa della Bastiglia nel 1789.

Gli uomini che hanno preso la Bastiglia non facevano parte di uno stesso partito, non c’erano partiti tra di loro. Si trattava di un gruppo di persone formatosi su un’azione comune realizzata a rischio della propria vita; l’azione era la soppressione delle prigioni politiche; gli uomini che si sono fatti uccidere per questa ragione e che hanno invaso la fortezza pur non essendo dei militari – persone che avevano uno scopo preciso ma che possedevano tra di loro un legame perché non si poteva conquistare il castello senza avere qualcosa in comune – avevano stabilito tra di loro una relazione che è una relazione di fratellanza».

Illuminante poi la definizione di fascismo che dà Sartre, stuzzicato da una domanda di Eder Sader.

«Per me il fascismo è lo Stato in quanto non è più una forma d’azione e d’amministrazione universale, un po’ astratta, che lascia la vita dei cittadini essere quella che è o la vita privata quella che è. In realtà è un nuovo Stato che si proietta nella coscienza di ciascun cittadino in maniera tale che il cittadino stesso è dentro di sé “statizzato”. Lo Stato è creato all’interno degli individui con i suoi principi, la sua maniera di parlare, la sua maniera di ragionare che poi non è altro che ciò che noi comunemente chiamiamo Stato. È un pensiero che non è più personale ma impersonale e fondato su delle necessità o almeno su ciò che si stima essere delle necessità.
Penso dunque che il fascismo non sia l’apparizione di uno stato dittatoriale, può avere altre forme oggi, ma è innanzitutto il fatto che lo Stato è in sé una struttura composta da individui diventati cittadini dalla nascita, ma non cittadini in senso democratico ma nel senso di soldati di un esercito. Penso che se dovesse trionfare, il fascismo trasformerebbe ogni persona in un corpo individuale con un pensiero universale. La persona in quanto tale sparirebbe. E questa è la cosa più importante ovvero il fatto che il fascismo non può costruirsi se non attraverso la sparizione della persona non in quanto corpo ma in quanto persona avente dei pensieri personali ed una situazione personale ma che, essendo immersa soltanto in situazioni generali, risponderà oramai solo con pensieri generali.

Nei movimenti fascisti c’è un po’ di tutto questo anche se è difficile attuare questo programma fino in fondo dato che tutto ciò è in contraddizione con la natura individuale e personale dell’uomo. Quale che sia il suo rapporto con il sociale, l’uomo è innanzitutto individuo. Un movimento politico che vuole sopprimere la persona in quanto ingombrante è un movimento anti–umano e di conseguenza non può sopravvivere; il destino del fascismo è, presto o tardi, quello di scomparire perché la persona che viene negata o trasformata in qualcos’altro si ricostituisce e nel momento in cui si ricostituisce lo fa attraverso la distruzione dello stato fascista».

L’utopia di Gezi Park, le masse oceaniche di Tahrir, di Avenue Bourguiba e dell’Avenida Paulista, la società indignata di Puerta del Sol, la società “altra” di OccupyWallStreet non sono forse il tentativo orizzontale di creare una fratellanza dal basso, senza partiti e cappelli politici, e soprattutto di mettere in discussione questo stato totalitario introiettato e radicato di cui parla Jean–Paul Sartre? Non sono forse il segno della volontà di scardinare una condizione d’esistenza sociale e politica che s’impone nelle nostre menti dalla nascita e che ci ha reso cosi ciechi ed impersonali, anonimi soldati di un invisibile esercito? Quale che sia la risposta è innegabile l’attualità delle riflessioni di Jean Paul Sartre e soprattutto il suo contributo a capire i movimenti di contestazione che dalla Turchia al Brasile stanno mettendo in discussione le società in quanto incarnazioni particolari di ciò che Slavoj Zizek ha definito il «capitalismo finanziario globale». Davanti ad un problema globale non poteva non esserci una risposta nei popoli a livello globale ed è forse la solidarietà tra esseri umani, la fratellanza, quella che determinerà il successo o meno di questi movimenti nel futuro.

Twitter: @marco_cesario