Avendo ceduto l’autorità sulla politica monetaria alla Banca Centrale Europea, i paesi dell’area Euro hanno di fatto perso il controllo sul tasso di cambio. Per alcuni paesi (leggi Germania) questa perdita ha rappresentato più un cambiamento di carattere formale che strutturale, poiché prima dell’introduzione dell’euro la loro condotta monetaria era centrata proprio sulla stabilità del tasso di cambio. Per altri paesi, e qui si parla d’Italia, ha rappresentato un cambiamento radicale: niente più svalutazioni con le quali periodicamente si tentava di accrescere la competitività del sistema economico.
Data l’impotenza di determinarla, in Italia la politica valutaria è rimasta per anni sullo sfondo dei dibattiti di politica economica. Si è continuato a discutere se il tasso di conversione imposto alla fine del 1998 (1 Euro=1.936,27 Lire) fosse stato troppo svantaggioso per la nostra economia, tuttavia, le svalutazioni competitive sono diventate presto un reperto di archeologia economica. La crisi dei debiti sovrani e la susseguente recessione hanno riproposto il tema della svalutazione come mezzo per stimolare l’economia, ma c’è una piccola complicazione: per rendere competitiva l’Italia via politica monetaria bisogna prima avere una moneta da svalutare.
Cresce la schiera di chi pensa che sia sufficiente intraprendere tre semplici azioni per uscire dall’impasse economica: (i) abbandonare l’euro; (ii) adottare nuovamente la Lira; (iii) svalutare alla bisogna per far crescere il Pil e rimettere in marcia un’economia al collasso. Qual è la regione per cui a una svalutazione della moneta nazionale corrisponderebbe una crescita del reddito?
La teoria che lega svalutazione a crescita del Pil è apparentemente lineare. Quando un paese svaluta la conseguenza immediata è l’aumento del prezzo dei beni importati e la diminuzione di quello degli esportati. Il calo del prezzo fa aumentare la domanda mondiale di export e ciò fa aumentare la produzione e quindi il Pil. Logica tanto semplice quanto potenzialmente fallace. Molti sembrano ignorare che una svalutazione può avere effetti indesiderati, anche al di là delle turbolenze finanziarie causate da un’uscita dell’Italia dall’Euro.
Per esempio, se il paese che svaluta ha un disavanzo della bilancia commerciale, cioè importa più di quanto esporta, nel breve periodo l’effetto di una svalutazione può essere negativo sul Pil. In questo caso i guadagni in termini di aumentata domanda per l’export sono più che compensati dalla perdita dovuta al fatto che le importazioni diventano più costose. Si dirà che questo non è il caso dell’Italia visto che oggi la nostra bilancia commerciale è in sostanziale pareggio. Purtroppo è possibile che a una svalutazione segua una contrazione del Pil anche quando il valore dell’import e dell’export si equivalgono ex-ante. La svalutazione ridistribuisce ricchezza dai salari a rendite e profitti: l’aumento dei prezzi degli import riduce i salari reali, l’aumento della domanda di beni esportati aumenta i profitti delle imprese. Se, com’è ragionevole supporre, il tasso di risparmio dei lavoratori dipendenti è più basso di coloro i quali beneficiano dei nuovi profitti, la redistribuzioni riduce la domanda totale di beni e, di conseguenza, riduce Pil e occupazione.
Indipendentemente dalle conseguenze sulla crescita del Pil, la svalutazione comporta sempre una redistribuzione del reddito. Queste dinamiche ridistributive possono essere meglio comprese notando che una svalutazione monetaria è equivalente negli effetti a una manovra fiscale che innalzi l’imposta sul valore aggiunto e contemporaneamente riduca i contributi sul lavoro versati dalle imprese. L’aumento dell’Iva rende relativamente più care le importazioni rispetto alle esportazioni, poiché le prime sono soggette all’imposta mentre non lo sono le seconde. La riduzione del costo del lavoro, finanziato mediante il gettito addizionale dell’Iva, riduce il prezzo delle esportazioni. Questa manovra fiscale, proprio per la sua equivalenza con una svalutazione del tasso di cambio, è spesso chiamata svalutazione fiscale.
Ora, chi crede che uscire dall’euro per poi svalutare sia la cosa giusta per stimolare la crescita non può, a rigor di logica, essere contrario a una svalutazione fiscale. Invece capita spesso che i pasdaran della svalutazione monetaria trovino inaccettabile un aumento dell’Iva, anche se coordinato con una riduzione del costo del lavoro, perché l’Iva, essendo una tassa non progressiva, colpisce sproporzionatamente i redditi più bassi. Giusto. Aggiungano però anche che questo è esattamente quello che avviene nel caso di una svalutazione monetaria.
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