Lavoro giovanile, i fondi dell’Ue non basteranno

Youth guarantee

I finanziamenti per la youth guarantee, il piano europeo per il sostegno al lavoro giovanile, sono un’opportunità da non perdere per il potenziamento delle politiche del lavoro, ma difficilmente potranno costituire la panacea al problema della disoccupazione.

Vi sono da superare non pochi problemi organizzativi e bisogna tenere conto che, in ogni caso, le risorse a disposizione non sono certo ingenti. Partiamo da questo secondo aspetto: secondo quanto ha dichiarato il premier all’indomani del Consiglio d’Europa del 28 giugno, all’Italia spetteranno per la politica di contrasto alla disoccupazione giovanile 1,5 miliardi. Spendibili, probabilmente, tra il 2014 e il 2015, invece di spalmarli sui sette anni di durata del progetto europeo. Un conto, ovviamente, è avere la disponibilità di 1,5 miliardi in un breve lasso di tempo, altro è poter utilizzare per sette anni circa 214 milioni l’anno.

Veniamo ai problemi organizzativi. Senza entrare adesso nei dettagli delle azioni esperibili concretamente per aiutare i giovani a trovare lavoro, un primo nodo va sciolto con risolutezza: il finanziamento, intero o spalmato nei sette anni, deve essere integralmente destinato, senza eccezione alcuna, a beneficio dei giovani in cerca di lavoro. Già da giorni si è scatenata la polemica se sia più opportuno che i finanziamenti siano gestiti dai servizi pubblici per il lavoro, invece che dalle agenzie private, con ragionamenti piuttosto sterili in merito all’efficienza degli uni in confronto agli altri. Se la questione nasce dall’appetito che suscita il finanziamento e dalla sua possibile utilizzazione, anche solo parziale, per sostenere le spese degli uni o degli altri, si è fuori strada.

Basta una semplicissima analisi per costo. Esperienze di politica attiva per il lavoro caratterizzate da un misto di interventi (colloqui di orientamento, verifica delle abilità, tirocini, formazione) della durata in media di 70 ore, sono già state sviluppate nel passato. Ad esempio, qualche anno fa, il progetto Pari assegnava per ciascun disoccupato, allo scopo di realizzare questa batteria di interventi, un finanziamento di 4.500 euro, parte dei quali destinabili alle aziende che li assumessero mentre il progetto era in corso. Immaginando di confermare una simile “dote” per ciascun lavoratore, con 1,5 miliardi, sarebbe possibile gestire progetti di aiuto attivo alla ricerca di lavoro per circa 333mila giovani. Se la dote fosse più elevata, il numero dei giovani sarebbe inferiore e viceversa.

Si comprende, comunque, che i possibili destinatari non sono moltissimi, considerando che la “Garanzia giovani” non dovrebbe limitarsi ai circa 647mila giovani disoccupati censiti dall’Istat a maggio 2013, ma rivolgersi anche ai cosiddetti “dispersi” o Neet (Not in Education, Employment or Training, cioè giovani che non studiano, non sono inseriti in corsi di formazione e non cercano attivamente lavoro), che secondo il rapporto tecnico dell’Isfol sul tema sono 2 milioni e 250 mila. Erodere un finanziamento importante ma non risolutivo, utilizzandolo per coprire costi di funzionamento, appare dunque uno spreco. Molti già pensano a una “premialità” per i servizi che meglio riescono a collocare i giovani. Può anche essere utile, ma le risorse per i premi andrebbero reperiti da altre parti.

C’è, poi, il problema organizzativo vero e proprio. Occorre decidere se potenziare i servizi pubblici, come sembra propendere il Governo, oppure affidarsi ai privati o combinare le due ipotesi. In ogni caso, se il Governo, come pare, ha l’intenzione di accelerare i tempi, occorre che decida in fretta, ma molto in fretta, cosa fare delle province. Le province sono un convitato di pietra, perché sono loro a gestire direttamente i servizi pubblici, mediante i centri per l’impiego.

Se l’intento è potenziare questi uffici, il Governo deve decidere senza più alcun indugio quale ente avrà la titolarità dei centri per l’impiego. Non si può rinviare la questione alle calende greche di una legge costituzionale che abolisca (scelta, per altro, discutibile) le province, perché non sarebbe possibile attivare le azioni in assenza del potenziamento degli uffici, troppo sottodotati in risorse e personale (dieci volte meno della Germania) per poter garantire efficienza.

Le province, ad esempio, per effetto della frettolosa “spending review” montiana, hanno il divieto assoluto di assumere dipendenti a qualsiasi titolo. Dunque, anche nell’ipotesi immaginata dal sottosegretario Dell’Aringa di rinforzare i Cpi trasferendo personale in esubero delle amministrazioni statali, se non si elimina il divieto di assumere imposto alle province, o non si stabilisce quale altro ente abbia la competenza della gestione delle politiche attive per il lavoro, il progetto youth guarantee rischia di rimanere fermo proprio sin dall’avvio.

Si è parlato dell’eventualità di trasferire i centri per l’impiego alle Regioni o di costituire un’agenzia apposita. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, la scelta non potrà non tenere conto del fatto che le politiche attive del lavoro si realizzano in territori più ridotti, perché i mercati del lavoro in una Regione sono molti: quelli dei capoluoghi, quelli dei distretti, quelli di aree geografiche specifiche, e così via. E, dunque, il livello provinciale e sub provinciale che caratterizza i Cpi (simile a quello dell’Inps) appare irrinunciabile.

Se, però, il progetto è l’occasione di riorganizzare i servizi, sarebbe opportuno che il Governo pensasse bene a come procedere. La regionalizzazione dei servizi è un rischio: il neo centralismo regionale diverrebbe ancora più forte, le Regioni verrebbero totalmente stravolte e da enti di regolazione e legislazione, diverrebbero sempre enti di gestione, col rischio di far crescere ancor di più la loro spesa, letteralmente esplosa dopo la riforma del Titolo V.

Se il sacrificio al populismo delle province è proprio da fare, forse la soluzione più razionale appare l’agenzia nazionale, organizzata su base provinciale sulla falsariga dell’Inps. A patto di organizzarla in modo da dare autonomia di gestione finanziaria alle sedi decentrate, così da permettere l’agilità di manovra e di decisione che il livello regionale o quello accentrato non consentirebbero.

*Articolo originariamente pubblicato da lavoce.info con il titolo “Lavoro giovanile, una corsa a ostacoli”.Luigi Oliveri è dirigente Coordinatore dell’Area Funzionale Servizi alla Persona e alla Comunità della Provincia di Verona, che raggruppa il Settore Politiche Attive per il Lavoro, i Servizi Turistico-Ricreativi ed i Servizi Socio-Culturali. Collabora dal 1997 al quotidiano economico “Italia Oggi” per gli approfondimenti giuridici delle questioni attinenti agli enti locali. Collabora dal 1999 con “Ancitel s.p.a.”, società dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e dal 2003 con il Centro Studi e Ricerche sulle Autonomie Locali di Savona.

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