Sembra quasi il colpo ferale di Maramaldo: Ligresti e famiglia arrestati quando ormai sono già nella polvere, il loro potere dissolto, il gruppo smembrato. In realtà i magistrati indagavano da tempo e hanno passato in rassegna i bilancio dal 2008 al 2011, cioè negli anni in cui la crisi ha fatto vacillare l’impero costruito sui mattoni e la finanza, mettendo alle strette di amici di un tempo e quelli nuovi, l’intero castello che era stato costruito da Enrico Cuccia attorno all’uomo d’affari di origine siciliana.
L’affannoso tentativo di imbellettare i conti, lo spregiudicato gioco al rialzo in borsa, il salvataggio discusso e discutibile di Mediobanca attraverso Unipol, la compagnia di assicurazioni delle cooperative rosse, gli strascichi di polemiche e accuse, tutto ciò ha creato la miscela che è esplosa all’alba di mercoledì 17 luglio 2013, quando la guardia di finanza arresta l’intera famiglia Ligresti e i top manager del gruppo.
Il vecchio Salvatore ai domiciliari, i tre figli, Giulia, Jonella e Paolo (che è in Svizzera) in prigione. Con i Ligresti, però, non cade solo un’icona del capitalismo all’italiana. È facile immaginare a questo punto un effetto domino destinato a trascinare con sé buona parte del salotto buono nel quale era entrato a far parte grazie alle sue qualità: segretezza, fedeltà nei confronti dei protettori, prontezza negli affari e ancor più nel compiere quei favori senza i quali non si va da nessuna parte. Come don Salvatore aveva imparato a proprie spese.
Il gruppo Ligresti si reggeva su tre pilastri: assicurazioni, immobili, finanza, con un giro d’affari che aveva raggiunto i sette miliardi di euro. Tutti mestieri che hanno fatto la fortuna e poi hanno contribuito alla caduta, a cominciare dalle assicurazioni, attività divisa in due grandi compagnie, la Fondiaria-Sai (che ha annunciato una perdita di 431 milioni nei primi nove mesi 2010) e la Milano. Gli anni di crisi si sono abbattuti in modo pesante sui rami danni e sinistri, ma anche sulle polizze vita, complesse costruzioni basate su calcoli attuariali e legate all’andamento dei mercati. Un po’ è conseguenza fisiologica della congiuntura, un po’ deriva dal tipo di prodotti offerti. La discesa delle quotazioni per tutte le ricche e blasonate partecipazioni in portafoglio (Mediobanca, Pirelli, Alitalia, Impregilo, Gemina cioè Aeroporti di Roma, Rcs) ha aggiunto cicuta nel calice amaro.
E tuttavia, Premafin non era solo carta, affondava i piedi nella terra e nel cemento, là dove tutto è nato più di trent’anni fa. Don Salvatore ha seguito alla lettera gli insegnamenti del suo primo maestro, Michelangelo Virgillito, il quale gli diceva di comprare tutto quello che gli altri scartano, tenerlo in caldo e poi metterlo a frutto. Così, si è lanciato sulle aree dismesse del nord post-industriale, soprattutto a Milano e a Torino, ma anche a Firenze e su quella parte della Roma burocratica in via di cambiamento (le torri dell’Eur). Senonché la bolla è scoppiata e sono crollati i valori di terreni e palazzi scritti nei bilanci Premafin a livelli altissimi.
Le difficoltà alla base risalgono al vertice, una punta sottile dalla quale, come è tradizione nel capitalismo italiano, si controlla l’intera piramide. In cima c’era Starlife, società in accomandita che faceva capo in parti uguali a Salvatore e i suoi tre figli: tramite Immobiliare costruzioni e Sinergia, possiede un quinto delle azioni Premafin. Jonella, Giulia Maria e Gioacchino Paolo possedevano il 10% ciascuno, attraverso rispettivamente la Hike Securities, la Canoe Securities e la Limbo Invest, tutte società lussemburghesi. Don Salvatore si era ritagliato un ruolo di presidente onorario, anche se i grandi affari e le decisioni strategiche passavano sempre per le sue mani, mentre i tre eredi si dividono i ruoli operativi. A Giulia Maria, appassionata di borse che disegna personalmente, spettava la presidenza del gruppo, mentre Jonella si affermava negli snodi cruciali come il consiglio di Mediobanca.
Senonché le perdite accumulate nelle assicurazioni in borsa e negli immobili (alle quali vanno aggiunte anche quelle del settore alberghiero) mettono a nudo l’amara realtà. Se la Consob avesse obbligato Premafin ad adeguare il valore di FonSai a quello di mercato l’imprenditore siciliano avrebbe dovuto ricapitalizzare tutte le società della catena di controllo, sottoponendosi a un vero salasso. Ma la Consob non lo ha fatto. FonSai si è fatta carico di una serie di operazioni in conflitto di interesse come l’acquisto della catena alberghiera Ata-Hotels e la costosa Opa su Immobiliare Lombarda. Ligresti ha venduto con una mano e comperato con l’altra, prelevando denaro dalla parte bassa, che genera reddito, per portarlo nella parte alta dove risiede il controllo.
Nel complesso immobiliare milanese Porta Nuova Isola, il 43% in mano a Sinergia è passato a FonSai già titolare dello stesso progetto di Porta Nuova Garibaldi e Porta Nuova Varesine. L’economista Alessandro Penati, in un puntiglioso articolo su Repubblica lo scorso anno, sottolinea che «il risanamento imporrebbe un aumento di capitale, per mettere in sicurezza la struttura finanziaria e creare valore riacquistando la quota sul mercato della controllata Milano Assicurazioni. L’ho già scritto nel marzo 2009: ma da allora FonSai, invece di raccogliere nuovi capitali, ha distribuito 190 milioni di dividendi e il titolo ha perso un altro 37% rispetto alla media del settore. Ma quest’aumento non s’ha da fare. Premafin e le holding al piano di sopra sono troppo indebitate per sottoscriverlo; e Ligresti rischierebbe di non contare più, uscendo dai giochi che contano».
Per far fronte all’indebitamento, Premafin ha negoziato innanzitutto un prestito di 320 milioni per far fronte alle scadenze, coinvolgendo tutte le principali banche. Come si fa ad abbandonare un protagonista del capitalismo relazionale, un uomo che sa quando e come mettersi a disposizione, e soprattutto di chi. Dall’inizio della sua cavalcata, a metà degli anni ’70, Ligresti ha rischiato più volte di andare a gambe all’aria, ma è sempre stato sostenuto e salvato dal fior fiore del mondo bancario, a cominciare da Enrico Cuccia.
L’incontro con il padrino dell’alta finanza, è avvenuto per caso quando don Salvatore era snobbato dal club dei poteri forti e lo chiamavano Totò: «Ero all’aeroporto di Fiumicino – ricorda – aspettando il volo Alitalia per Milano, tradizionalmente in ritardo. E lui si trovava accanto a me. Cominciammo a parlare e abbiamo fatto subito amicizia». Semplice, come le cose vere. Come gli esordi. È ancora Ligresti a raccontarlo nella prima intervista concessa, nel febbraio 1986, ad Anna Di Martino del Mondo: «Avevo saputo della possibilità di costruire, ma ci volevano 15 milioni e io ne avevo solo 5. Sono andato al Credito Commerciale, mi ha ricevuto il direttore generale Mascherpa, è stato a sentire e poi mi ha dato 10 milioni. Ho fatto il progetto e ho rivenduto per 50 milioni. Era il 1962». Facile, no? Anche troppo. Perché le biografie più o meno autorizzate sono molto più thrilling.
Nato a Paternò, in provincia di Catania, il 13 marzo 1932, da una famiglia di negozianti che possedeva anche agrumeti, viene mandato a studiare ingegneria a Padova. Il fratello Antonino, medico, ha costruito un piccolo impero di cliniche private. Totò va a Milano e si butta sul mattone. Qui incontra un compaesano, Michelangelo Virgillito: arrivato, semianalfabeta, nei primi anni ’40, si è arricchito comprando terreni e case lasciati dalle famiglie meneghine in fuga dai tedeschi e dalla guerra civile.
«Con un patrimonio immenso, quando Virgillito si affaccia in piazza degli Affari, gli agenti di cambio trattengono il respiro», ricorda Giancarlo Galli. Scala la Liquigas e, una volta presa, dona un diadema da 300 milioni di lire alla Madonna del suo paese natio. Usa la società come trampolino di lancio per Lanerossi e l’Assicuratrice italiana. Ha bisogno di giovani in gamba e assume Ligresti. Il contatto si deve ad Antonino La Russa, direttore generale di Liquigas, ex federale di Paternò, combattente della Repubblica sociale, poi senatore del Msi (padre di Vincenzo anche lui parlamentare missino, e di Ignazio attuale ministro della Difesa).
Virgillito fa il passo più lungo della gamba, non resiste e molla tutto a Raffaele Ursini che tenta di creare un polo chimico italiano, fallisce e fugge in Brasile. In portafoglio Liquigas c’è la Sai, società di assicurazioni, della quale prende il controllo Ligresti, trasformandola nella sua nave ammiraglia. Sono anni di piombo anche nella finanza: nel 1971 Michele Sindona dà l’assalto a Bastogi, il salotto buono per antonomasia, con i soldi di Cosa Nostra. Per contrastarlo, Cuccia cerca alleati e arruola don Salvatore il quale, da allora in poi, nutrirà, «sentimenti di assoluta devozione e riconoscenza», ricorda Francesco Micheli.
Con i ruggenti Ottanta, arriva il salto di qualità. L’ingresso nella Cir di Carlo De Benedetti fa salire alla ribalta Ligresti e lo sdogana. Poi c’è Bettino Craxi per il quale diventa punto di riferimento nel mondo degli affari, ancor più di Silvio Berlusconi, allora un concorrente privo dei legami eccellenti che può vantare don Salvatore. È lui, infatti, ad accompagnare Craxi in Mediobanca per assicurare l’appoggio alla privatizzazione pilotata da Cuccia contro Romano Prodi presidente dell’Iri. Quel rapporto privilegiato, ricorda Fabio Tamburini, viene spiegato spesso con le comuni origini siciliane, ma si basa su un dettaglio davvero diabolico: Cuccia ha parcheggiato nella Sai, quando era ancora degli Agnelli, il sette per cento di Euralux, ovvero la chiave per aprire il forziere Generali. Insomma, l’eterno triangolo.
Al culmine del successo, ecco il primo grave rovescio con uno scandalo edilizio che coinvolge la giunta di sinistra guidata da Carlo Tognoli. I cantieri della Grassetto vengono sequestrati e su don Salvatore calano di nuovo i sospetti. A cominciare da quelli di mafia. C’era stato anni prima, nel 1981, un episodio inquietante: il rapimento della moglie Bambi Susini, figlia di Alfio a lungo provveditore milanese per le opere pubbliche. Viene liberata dopo il pagamento di 600 milioni. Gli autori sarebbero esponenti delle famiglie perdenti delle cosche palermitane: Pietro Marchese, Antonio Spoica (finiranno ammazzati) e Giovannello Greco fedelissimo di Stefano Bontate, scomparso nel nulla. Tra il 1984 e il 1985 la magistratura (Piercamillo Davigo a Milano e Franco Ionta a Roma) conducono una inchiesta che non porta a nulla.
Ligresti si riprende grazie a Cuccia. Poi arriva Tangentopoli. Gli arresti nel 1992 e nel 1993, la prigione in cella con un tossicodipendente, la condanna scontata con l’affidamento ai servizi sociali. Che comporta la perdita del requisito di onorabilità richiesto per dirigere un’assicurazione. È il momento in cui emerge Jonella, insieme a Giulia e Paolo. Alla svolta del nuovo secolo, Premafin torna protagonista. Nel 2002 prende Fondiaria dalla Montedison, sotto la regia di Mediobanca (guidata da Vincenzo Maranghi dopo la morte di Cuccia) per impedire che finisca alla Fiat. La Consob chiede un’offerta pubblica di acquisto, ma né Ligresti né Maranghi hanno fondi sufficienti. Così viene in aiuto una cordata guidata da Micheli e composta da JP Morgan, Interbanca, Commerzbanck e la Mittel di Giovanni Bazoli).
Appena un anno dopo, Unicredit e Capitalia ribaltano gli equilibri, Maranghi viene defenestrato e don Salvatore per la prima volta cambia cavallo. Non lo avrebbe mai fatto se ci fosse stato ancora Cuccia, ma con il delfino non c’è la stessa intesa. Jonella, diventata la vera regista, spinge per la rottura grazie alla quale si stringe l’alleanza con Profumo e, soprattutto, con Geronzi. Nel 2004 Ligresti entra anche al Corriere della Sera (Bazoli fa cadere il proprio veto).
Ma arriva la grande crisi e nel 2010, per la terza volta, don Salvatore ha bisogno di essere salvato. L’operazione aumento di capitale si manifesta a settembre di quell’anno con l’acquisto sul mercato da parte di Vincent Bolloré, che arriva fino al 5 per cento. Il titolo sale e a questo punto Groupama, compagnia di assicurazioni francese, si dichiara disponibile ad acquisire il 17 per cento di Premafin. Il nuovo assetto farebbe scendere la famiglia al 34 per cento con la cordata francese attorno al 25.
I cani da guardia del mercato, Consob e Isvap, aguzzano lo sguardo. Groupama che, per una delle bizzarrie del capitalismo transalpino, è una cooperativa, fa da sostegno a Bolloré o al contrario è il cavaliere bianco dei Ligresti? In questo caso ci sarebbe un controllo congiunto, quindi occorre un’opa. «Se è così ci ritiriamo» dicono i francesi. È l’ultima speranza. Caduta anche quella non resta che negoziare il salvataggio al quale le banche sono interessate per non perdere i loro prestiti. Ma l’interesse maggiore è, naturalmente, di Mediobanca che coinvolge Unipol, ma naturalmente senza un’offerta pubblica di acquisto che sarebbe troppo cara. Le trattative vanno per le lunghe, finché il 18 luglio 2012 Unipol versa 400 milioni per l’81% di Premafin, la cassaforte del gruppo Ligresti, e ha esercitato diritti sul 35% di azioni Fonsai. Finsoe, la Finanziaria dell’economia sociale, che fa da holding e a sua volta è controllata dalla Lega attraverso Holmo, ha dato fondo alla cassa.
L’amministratore delegato, Alberto Nagel, firma addirittura un foglietto con il quale si impegna per una buonuscita alla famiglia di 45 milioni di euro. Dirà poi che lo ha fatto perché don Salvatore aveva minacciato il suicidio e in ogni caso il “papello” non aveva alcun valore legale. I soci di Mediobanca lì per lì se la prendono, ma Nagel li convince che o la banca d’affari si sgancia dai Ligresti al più presto o rischia di cadere con loro. L’intreccio è aggrovigliato e chiama in campo l’intero salotto buono. Finsoe ha acquisito da Premafin pacchetti importanti di Rcs (5,291%), Pirelli (4,48), Gemina (4,8), Mediobanca (3,83) e Generali (1%).
L’arresto dei Ligresti, adesso, fa tremare molti, a cominciare da Mediobanca che è sempre stata, come abbiamo visto, l’angelo custode. A don Salvatore non resta che recitare la parte di mastro don Gesualdo: «Sentite quegli urli? Vogliono la mia roba! Tutti quanti! Colle unghie! Coi denti! Qui! Qui dentro! Lasciatemi stare! Tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare!». Solo che la roba l’ha dissipata egli stesso.