L’aumento dell’Iva dal 21 al 22%, inizialmente previsto a partire dal 1 luglio, è stato rimandato di tre mesi. È una buona notizia? Vorremmo apprezzare lo sforzo dell’esecutivo di impedire l’ennesimo giro di vite sui consumatori, se non si fosse scelto di battere una via surreale: quella di aggravare altre imposte. E per giunta per ritardare, ma senza eliminarlo, il ritocco all’Iva.
Per questo, non rimuoveremo il “contatore”che diverse settimane fa abbiamo installato sul nostro sito. Semplicemente sposteremo le lancette, per ricordarci ogni giorno, ogni minuto, che tutto è rimasto com’era. Solo, spostato avanti nel tempo, per modesta grazia ricevuta. Dopo anni di aggiustamenti fiscali giocati pressoché esclusivamente dal lato delle entrate, oggi, nel pieno di una crisi che si sta mangiando la parte produttiva della nostra economia, è venuto il momento di cambiare strada.
Non è una battaglia politica, è una questione di buon senso. È il semplice buon senso che dovrebbe suggerirci che, d’ora in poi, la pressione fiscale non dovrà più crescere e, anzi, deve diminuire. Conosciamo l’obiezione: non è possibile ridurre le tasse senza tagliare la spesa. Non ci sta bene il sottinteso: che tagliare la spesa pubblica sia impossibile, sul piano tecnico come pure su quello politico.
La spesa pubblica italiana, tenendo conto dei suoi livelli e della sua qualità, può essere tagliata in misura sostanziale: secondo le nostre stime, di oltre 6 punti di PIL (qui in pdf). Nell’arco di una legislatura, si potrebbe raggiungere strutturalmente il pareggio di bilancio e conseguire un significativo abbattimento del peso dello Stato.
Purtroppo, il governo Letta – esattamente come quelli che lo hanno preceduto – ha preferito seguire una via diversa. Ha finanziato il rinvio (sottolineiamo: rinvio) dell’aumento Iva attraverso una serie di misure assolutamente dannose, che vanno dalla creazione di nuove imposte (quelle sulla sigaretta elettronica) all’aumento di tasse esistenti (i bolli) fino all’autentico gioco delle tre carte consistente nell’aumento surreale degli acconti Ires (101%) e Irap (110%). Questi ultimi, che consistono in un anticipo di gettito a due anni di distanza, equivalgono a un puro, semplice e non dichiarato innalzamento delle aliquote.
Ridurre una tassa alzandone un’altra è una presa in giro. Rinviare un aumento (cioè conseguire un risultato transitorio) attraverso rincari permanenti è molto peggio: è l’ammissione implicita della bancarotta intellettuale di tutta una classe dirigente che, persino nei suoi esponenti più giovani e teoricamente più avvertiti, resta intrinsecamente incapace di ribellarsi alle voraci termiti della spesa.
Un governo che volesse dare un futuro al Paese farebbe qualcosa di completamente diverso: cioè, finalmente, metterebbe in atto la spending review (a partire dal “rapporto Giavazzi” sui sussidi alle imprese, a cui il Ministro Saccomanni ha fatto esplicito riferimento in alcune interviste) e s’ingegnerebbe per abbassare le tasse. Siamo in rotta verso l’iceberg: far finta che ci stiamo muovendo più piano non sposta il timone di un grado.
*Originariamente pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni con il titolo “Il Titanic fiscale”