Ma siamo sicuri che i militanti faranno vincere il Pd?

La battaglia sulle regole

«Con questi dirigenti – diceva Nanni Moretti – non vinceremo mai». Lo aveva gridato nella famosissima manifestazione di Piazza Navona, in quell’intervento del due febbraio 2002 che è rimasto come un taglio nella tela, un capolavoro di Lucio Fontana. Non solo suonava bene, ma era terribilmente vero: il regista più amato della sinistra, parlava di fronte a Piero Fassino e a Francesco Rutelli, e aveva ben presente i fallimenti passati (e futuri) di quel gruppo di oligarchi che negli anni si era scambiato il testimone del potere senza mai cambiare niente, sempre restando impermeabile a ogni fermento della Società civile.

Oggi, però, la surreale discussione sulle regole del congresso del Partito Democratico, mi fa venire in mente che questa questa massima andrebbe aggiornata, con una riflessione impopolare: perché anche «Con questi militanti, non vinceremo mai». Ho ancora davanti agli occhi l’immagine di un collegamento che abbiamo fatto dalla festa Democratica di Roma, durante una puntata di In Onda, pochi giorni fa, in cui questa stessa opinione è stata espressa da due giornalisti assolutamente diversi tra di loro come Andrea Scanzi e Salvatore Tramontano: uno scrive per Il Fatto Quotidiano, l’altro per Il Giornale, uno di sinistra e l’altro di destra. Di solito non sono d’accordo su nulla, ma entrambi erano sconvolti da quello che i militanti romani spiegavano ai microfoni del nostro inviato, David Parenzo.

E che cosa dicevano, di tanto strano? Che loro non erano contenti di quel governo, per esempio, che non avevano fatto campagna elettorale per le larghe intese, ma che quella maggioranza era l’unica possibile. Che loro erano convinti che il Partito stesse vivendo «Il momento di maggiore forza politica della sua storia» (grazie al premier, ai ministero e alla sua centralità politica). Che loro erano seccati per lo scandalo del Kazakistan, per il voto sugli F 35, per le dichiarazioni di Stefano Fassina sull’evasione Fiscale, ma che tutto questo non li turbava più di tanto, perché comunque era tutto inevitabile.

Insomma, finita l’era dei grandi partiti di massa, gli iscritti sono diventati una platea di Fedeli, che amministrano il culto minore del partito come se si trovassero in una chiesa sconsacrata. Un tempo l’ideologia indicava una strada, un tempo in dissenso era un tabù: il consenso alla linea del partito era un dogma che però poteva essere (e spesso lo era) violato, producendo importantissimi conflitti di idee.

Un tempo – insomma – dissentire costava, ma era sempre possibile: e assentire era importante, ma non era mai scontato. Persino nel Pci apparentemente monolitico degli anni sessanta c’era la dialettica vivacissima tra Pietro Ingrao e Giorgio Amendola, in quello degli anni settanta, quella tra Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano. I partiti rappresentavano quasi in modo scientifico grandi fasce della società italiana, e scalarli era arduo, come raggiungere le vette delle montagne. Adesso, l’impressione è che questo spettro di rappresentanza se sia talmente ridotto, da aver perso la sua aderenza alla società reale.

Molti dei militanti che sentiamo parlare, non sono più né Fedeli né Apostati, e nemmeno rappresentanti autentici dei loro mondi di provenienza: sono come i tifosi di una squadra di calcio che inneggiano senza troppa passione ai colori della loro società, tifosi quasi per statuto. Sono militanti apparentemente sfiduciati, e che proprio per questo, hanno abbandonato il loro standard di qualità: difendono i loro campioni, anche quando non se lo meritano, e finiscono per mettere davanti a tutto una ragione di partito, anche quando non se ne vede più una.

Molti di questi iscritti sono figli di battaglie congressuali combattute a pacchetti di tessere, qualcuno è stato preso dagli elenchi del telefono, molti di quelli che fanno la militanza vera non hanno più la tessera, mentre qualcuno che non l’ha mai fatta invece ce l’ha. Il problema più grande, con l’unica eccezione dell’eroico popolo dei volontari veri, quelli che da mezzo secolo prendono le ferie per fare le feste (ma che ormai sono la parte più anziana della mitica “base”), è questo corpaccione di fedeli che seguono la politica come si va allo stadio: vogliono solo vincere, e in nome di questo sono pronti a giustificare qualsiasi scelta e qualsiasi errore.

E invece – almeno in politica – è proprio la logica dei capo corrente, o dei capo curva, quella che condanna i partiti alla sconfitta certa. Per questo la discussione sulle regole nel Pd non è un problema di forma, ma di sostanza. Fate votare tutti gli elettori: sono molto più sani e vitali dei tifosi con la tessera.