Nell’Egitto in caos, fuggono via anche i rifugiati

Nella scuola dei bambini del Darfur

IL CAIRO – Quando in Egitto arriva il caos, i primi a pagarne le spese sono le minoranze: cristiani, sciiti e sufi. A un anno dall’elezione del presidente Mohammed Morsi, il paese è tornato a essere spaccato e gli stranieri sono i primi a pagarne le conseguenze. Tra le vulnerabili comunità che hanno trovato rifugio al Cairo, i sudanesi del Darfur vivono questi giorni tra timore e episodi di settarismo. La più grande scuola che raccoglie i bambini sudanesi si trova nell’antico quartiere di Abbasseya in piazza Sakakini al Cairo. Un lussuoso palazzo di fine Ottocento, circondato da un cancello, occupa l’intera piazza dove macchine polverose sembrano ferme da mesi. Poco più avanti si intravedono i cancelli della chiesa Qalb el-Moqadem, dove scorazzano bande di bambini e bambine nerissimi, dai capelli ricci, con zaino in spalla.

Il sogno di normalità e il settarismo religioso

Incontriamo padre Cosimo che ci accoglie all’ingresso della chiesa. Sono 700 gli studenti di questa scuola di rifugiati, dall’asilo alle superiori seguono il programma ministeriale sudanese perché molti vorrebbero rientrare a Khartoum o nel Darfur. Padre Cosimo ha quasi dimenticato l’italiano, si è trasferito nel 1966 da Bari al Libano e nel ‘68 è arrivato in Egitto. «Non c’era niente, la chiesa, il salone sono stati costruiti pietra su pietra all’arrivo dei primi profughi sudanesi. Abbiamo poi ristrutturato la casa che ora accoglie i religiosi. Era un luogo minuscolo allargato per fare spazio alle classi». Padre Cosimo ha la luce negli occhi a raccontare come dal nulla è nata una delle scuole, popolate da africani, tra le più vive e attive in Egitto.

Il suo racconto è interrotto dall’arrivo di Jane. Il figlio di questa giovane donna ha nove anni, ma è stato vittima di un incidente in cui ha perso l’avambraccio destro. «Sta imparando a scrivere con la mano sinistra ma vorremmo assistenza medica che in Egitto non è facile ottenere», ci spiega. In realtà, il percorso da casa a scuola per questi bambini è diventato sempre più accidentato. Pare che proprio qualche giorno prima un piccolo sudanese sia arrivato ferito a scuola. «Lo hanno minacciato, lui ha tentato di fuggire. Lo abbiamo visto correre verso l’ingresso della scuola con l’uniforme insanguinata», rivela Mariam l’insegnante di matematica. «Questo rende tutti i bambini nervosi e deconcentrati, non vogliono neppure più leggere, sembrano impauriti», aggiunge. Si tratta per il momento di episodi isolati, che rivelano il clima di odio settario diffuso in Egitto in seguito alle rivolte e fomentato dall’assenza di polizia.

«Abbiamo sempre partecipato alla lotta degli egiziani, scendendo in piazza per difendere i diritti di tutti. Certo non possiamo accettare un uso esteso della legge islamica, favorito dalla nuova Costituzione. Lo scontro viene così fomentato dalla Fratellanza», denuncia padre Cosimo. Il religioso critica la presenza massiccia di uomini armati che rende precaria la sicurezza per strada, una costante dell’Egitto in transizione.

Attraversando il cortile, dove è in corso una partita di calcio con un pallone improvvisato, si arriva alle classi. Tra disegni dei bambini e i suoni della lezione di musica, incontriamo nel suo ufficio il direttore della scuola Botros Ambros Tougon. Assicura di puntare tutto sull’educazione e l’integrazione dei bambini. «Sono per la maggior parte figli di immigrati sudanesi che vivono nei nuovi quartieri di Medinat Nassr, Arb el-Nour e Maadi. Arrivano dal Darfur, molti sono nubiani. Dopo la guerra i numeri sono iniziati a salire, molti bambini sono stati accolti da noi, altri dalla scuola Saint Andrew. Sono venuti qui perché altrimenti non avrebbero potuto studiare», inizia Botros.

«Seguiamo i programmi ministeriali. La maggior parte dei bambini però resterà in Egitto, alcuni di loro possono anche ottenere delle borse di studio dall’estero», continua. A Sakakini operano il Programma Alimentare Mondiale, la Caritas Masry e il Catholic Relief Service, finanziando anche progetti di formazione e inserimento lavorativo. Ma queste iniziative non bastano a calmare gli animi. «Dall’inizio delle rivolte i bambini che raggiungono la scuola in metro ci raccontano di subire attacchi da parte degli egiziani», ammette Botros. E con i Fratelli Musulmani al potere le discriminazioni sono aumentate. Migliaia di cristiani copti hanno lasciato l’Egitto, avevano negli occhi gli scontri settari di Moqattam, Embaba e Helwan che hanno causato decine di morti, spesso innescati da false notizie diffuse da esponenti dei movimenti salafiti.

Sud Sudan: tra guerra civile e diritti negati

Ma i bambini di questa scuola sono due volte colpiti dalla discriminazione. Nell’ottobre 2011 erano circa 44mila i rifugiati riconosciuti dalle Nazioni Unite in Egitto, di questi quasi 25mila erano provenienti dal Sud Sudan. Fino agli anni Novanta, i sudanesi non erano considerati come rifugiati, ma equiparati agli egiziani per storia e tradizione. Grazie al trattato di Wadi el-Nil (1976), per i sudanesi non serviva un visto per vivere in Egitto.

Le cose sono radicalmente cambiate dal 1995, quando Mubarak in visita ad Addis Abeba subì un tentativo di attentato. Da allora e con l’avvento della guerra civile sudanese, il clima è mutato. «Fino a quando non servivano permessi per entrare al Cairo, non si contano i sudanesi del sud in fuga dalla guerra civile», spiega Cosimo. Molti dei genitori di questi bambini hanno lasciato il paese quando è arrivato al potere Omar al-Bashir nel 1989, l’anno in cui il governo islamista del nord impose la sharia. Tuttavia, i rifugiati in Egitto non godono di diritti socio-economici e ai bambini viene di fatto negata un’istruzione pubblica gratuita.

Nonostante ciò, le persecuzioni religiose in Sudan hanno fatto triplicare il numero di sud sudanesi che hanno cercato riparo al Cairo. Ma dal luglio del 2011, il Sud Sudan è diventato uno stato indipendente da Khartoum. Da quel giorno e con le tensioni settarie in corso, tanti rifugiati sudanesi di Sakakini hanno tentato di fare ritorno al loro paese, anche nei dintorni di Juba, la capitale del nuovo stato. «Molti non vedono l’ora di tornare e affrontano un viaggio complicatissimo, estenuante, attraverso i boschi dell’area di confine contesa», incalza Botros. Padre Cosimo sembra ormai abituato a benedire le famiglie e i giovani che hanno deciso di lasciare il Cairo. Delle donne si abbracciano, una di loro sta per tornare in Darfur con i suoi figli.
 

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