Tre giorni di serrata. Nel quadrilatero della moda milanese, Dolce & Gabbana abbassa la saracinesca della boutique di via della Spiga (oltre a quella dell’edicola, del Martini Bar, del barbiere e del Ristorante Gold del marchio). E tutta la “città della moda” non parla d’altro. «Chiuso per indignazione. Closed for indignation», è scritto sulle vetrine. Tra turisti curiosi che, increduli, spingono invano le maniglione delle porte a vetro nel tentativo di entrare comunque. Una reazione “spettacolare”, come il sistema della moda insegna, in risposta alla dichiarazione dell’assessore al Commercio del Comune di Milano Franco D’Alfonso: «Non bisognerebbe concedere spazi simbolo della città a personaggi famosi e marchi vip che hanno rimediato condanne per fatti particolarmente odiosi in questo momento di crisi economica come l’evasione fiscale» (riferendosi alla condanna in primo grado dei due stilisti a un anno e otto mesi). Stefano Gabbana su Twitter si era già sfogato (anche troppo): «Comune di Milano Fate schifo!!!»; «Vergognatevi!!! Ignoranti» e «fate schifo e pietà!!!». Ma non è bastato. Ed è arrivata anche la serrata. In una Milano in cui moda e politica non vanno proprio a braccetto. Se è vero che il sindaco Giuliano Pisapia fatica a indossare persino lo smoking per la prima della Scala.
«Mentre a Downing Street David Cameron riceve personalmente stilisti e buyer per sostenere la moda inglese, a Milano si litiga con gli stilisti a suon di battute infelici e reazioni eccessive, anziché aprire Palazzo Marino (sede del Comune, ndr) alla moda », commenta Fabiana Giacomotti, docente di Scienze della moda all’Università “Sapienza” di Roma e collaboratrice di testate come Il Foglio.
Certo, rispetto ad altri grandi nomi della moda milanese, Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono un po’ degli outsider. Stamattina sui giornali i due stilisti hanno comprato una doppia pagina di inserzione a pagamento per spiegare il senso della protesta (e i loro avvocati si sono addentrati nei tecnicismi fiscali per provare a smontare le accuse mosse agli illustri clienti). «Hanno ricevuto molto dalla città, come hanno avuto modo di ricordare loro stessi in altre occasioni, ma al contrario di altri stilisti che hanno intrapreso iniziative per migliorare alcuni spazi pubblici, offrire fondazioni, mostre, restauri, hanno sempre e solo lavorato per se stessi. Non fanno neanche parte della Camera della moda». Pur senza mai dichiararlo, non hanno mai nascosto simpatie per il centro-destra, dunque in direzione opposta a quella della giunta milanese. I due stilisti, rappresentanti a modo loro del mondo paillettato berlusconiano, nel 2009 ottennero dall’amministrazione Moratti l’Ambrogino d’oro, l’Oscar milanese per eccellenza per aver contribuito a valorizzare l’immagine di Milano nel mondo.
Ma caso D&G a parte, quella che si è aperta a Milano è una discussione sull’intero sistema della moda, che in Italia ha un fatturato di 51 miliardi di euro. Ma che negli ultimi anni rischia di perdere una posizione dominante non tanto rispetto a Parigi, tornata ad occupare stabilmente un ruolo che detiene da secoli, ma nei confronti di New York e, soprattutto, Londra, nazione che se vanta un primato nella formazione, non ha alcuna rilevanza produttiva nel settore. Le ragioni di questo improvviso distanziamento sono molte e affondano le radici negli ultimi due decenni. Innanzitutto, nel nostro Paese i grandi marchi del made in Italy, con le dovute eccezioni come Ferragamo, Zegna o Prada, sono «grandi singoli», spiega Giacomotti, ancora di prima generazione e gestite dagli stessi imprenditori che le hanno lanciate e che sono tendenzialmente restii ad affidarsi a manager esterni. Ognuno lavora per sé, in un clima di rivalità e di frammentazione enfatizzato dalla nostra naturale propensione all’individualismo. «In Francia, ad esclusione di Chanel e di Hermès, i giochi sono fatti invece da due soli soggetti, i due agglomerati del lusso Kering e Lvmh, che gestiscono marchi talvolta plurisecolari come Vuitton secondo logiche di gruppo, e che sono dotati di una forza d’urto micidiale sui mercanti mondiali». È un sistema diverso, insomma.
Su un altro piano, ma secondo logiche simili si muove New York, che nonostante non abbia «neanche lontanamente il livello di creatività di Parigi o Milano, è una delle città leader al mondo, pompata dai gruppi editoriali e soprattutto dalla politica. La first lady Michelle si fa un punto d’onore di vestire solo i giovani stilisti americani, in questo sostenuta da tutti, cittadini compresi, come faceva l’imperatrice Eugenia in Francia centocinquant’anni fa: bauli Vuitton, abiti di Worth. In Italia, chiunque indossasse moda griffata, verrebbe sommersa dalle critiche».
Proprio quello che manca in Italia. «La politica, in quanto istituzione, non sostiene in nessun modo la moda», dice Giacomotti, «non basta dire in continuazione “La moda è fondamentale per l’Italia”. Bisogna passare ai fatti. Apriamo Palazzo Marino nei giorni delle sfilate. L’industria non è fatta solo di tute blu che fabbricano tondini, ma anche di chi lavora alla macchina da cucire per cucire gonne». Nel frattempo, «in questi ultimi quindici anni centinaia di migliaia di addetti dei distretti del tessile o di quel che ne rimane sono scomparsi nel silenzio generale». Così come è accaduto in tutti questi anni che molti brand italiani siano stati acquisiti da gruppi stranieri, «ma solo ora che Lvmh ha comprato Loro Piana si grida allo scandalo. Negli anni in cui tutto andava bene ci siamo persi tanti pezzi di storia senza che nessuno alzasse un sopracciglio, ora che tutto va male la notizia di Loro Piana scatena l’inferno».
In tanti hanno commentato che «se ci fosse un sistema bancario sviluppato questo non sarebbe successo». «Ma ci siamo dimenticati il caso di Hdp?», chiede Giacomotti. La holding del lusso era finanziata a fiumi dai salotti buoni della finanza milanese, Mediobanca in testa. Poi finì nelle mani di Maurizio Romiti, e si sa come è andata, o meglio si finge di dimenticarlo. Ora il primo dei suoi acquisti, Valentino, è finito nelle mani dell’emiro del Qatar e funziona benissimo, una meraviglia”. Tentò Gianluigi Facchini con Fin.Part, processo per bancarotta non ancora concluso, provò Tonino Perna con It Holding, stessa fine, provarono i Burani, terzo fallimento. Agli inizi degli Anni Duemila, tentò la strada del polo del lusso, “lusso minimalista” come si disse all’epoca, anche Prada, prima acquisendo Fendi con Lvmh (poi ne uscì, molto più ricca) poi comprando Jil Sander e Helmut Lang. In quel caso, però, giocarono a sfavore il periodo storico, una minor forza di impatto sia in termini di liquidità sia di rilevanza del gruppo sui mercati internazionali rispetto ad oggi sia le difficoltà riscontrate nel gestire sotto un unico tetto le logiche specifiche dei due marchi.
Proprio la holding italiana fondata dai fratelli Prada nel 1913, negli stessi giorni in cui i giornali raccontano la diatriba tra Dolce & Gabbana e l’assessore milanese, ha comprato due pagine del Corriere della sera e La Repubblica (a sinistra), per dire che «Prada è una realtà internazionale ma è a Milano che ha le sue radici». Certamente la pubblicazione era già stata programmata, ma fa effetto vederla proprio in questi giorni. «Prada sta puntando molto sulla milanesità», spiega Giacomotti, «Miuccia Prada è legata molto a questa città, è emblema dello stile milanese, è qui che il marchio ha il suo headquarter. E poi è molto impegnato nella Camera della moda».
L’associazione nazionale che rappresenta gli stilisti italiani per anni è stata al centro di diatribe tra i grandi nomi. Ma ora pare che la volontà si sia ricompattata e nel consiglio sono entrati Patrizio Bertelli (Prada), Zegna e anche Loro Piana, questi ultimi membri anche di Sistema Moda Italia (Smi), aderente a Confindustria, l’associazione dei produttori tessili. Potrebbe essere una bella occasione per migliorare anche il sistema dell’associazionismo del sistema, a sua volta frammentato. «Per anni la Camera della moda è stata accusata di occuparsi solo del calendario delle sfilate: con il nuovo consiglio potrebbe fare, finalmente, politica di settore».
Questo, dice Giacomotti, «potrebbe essere infatti un momento di riscossa per il sistema della moda italiana. Ci si è resi conto che la situazione stava sfuggendo di mano. Milano è il collettore per gli imprenditori del Nord e del Centro, che magari non hanno nella città il proprio polo produttivo, ma che a Milano hanno mantenuto gli headquarter. E poi a Milano resiste, e resistere è il verbo adatto, l’editoria. Con qualche impegno maggiore potrebbe riprendersi anche la produzione foto e video, per anni trascurata a favore delle società straniere, americane in particolare. Abbiamo a lungo trascurato fotografia e grafica, noi che ne siamo stati leader per tutto il Novecento. Ma anche la moda ha le sue mode». Quello che ancora manca, invece, «è la connessione tra turismo e moda, come a Firenze è stato fatto con Pitti». Nomi noti a parte, però, Milano è anche terreno fertile per l’affermazione di nuovi marchi. «Prendiamo Aquilano Rimondi, i due neoquarantenni che hanno vestito Luciana Littizzetto all’ultimo festival di Sanremo, ma anche Gabriele Colangelo». Quello che la Camera della moda potrebbe fare, per esempio, è «lasciare posizioni migliori agli emergenti e chiedere di lasciare a chi va in passerella sostenuto solo dalle royalties dei profumi ma non manda in produzione quanto presenta». Anche perché non è fatta solo di sfilate o spettacolo. «Quelli che vanno in passerella sono solo una parte, rilevante ma non totale, del sistema. Pensiamo alle presentazioni negli showroom. Per alcuni non ha senso sfilare. E i marchi degli accessori, al contrario rilevantissimi per la moda italiana, vedi Tod’s o Zanotti, organizzano presentazioni di grande impatto ma non sfilano».
E a Milano sono proliferate anche le scuole di moda. Alcune di eccellenza, altre molto meno. «Fioriscono tante trappole, che coltivano il sogno di tanti giovani di diventare stilisti o direttori creativi. Quando le figure più ricercate al momento sono quelle di modellista o prototipista. Professioni che pochi vogliono svolgere, tanto che Fendi ha aperto una scuola interna. Eppure sono mestieri strapagati: lo stipendio di un prototipista è paragonabile a quello di un quadro dirigente».
@lidiabarattaLEGGI ANCHE: