Nelle ultime settimane la Cina è tornata a intimorire i mercati finanziari. Qualcuno, come J.P. Morgan, ha già paragonato la scarsità di liquidità vista nel sistema bancario cinese come il preludio a ciò che accadde nel 2008 negli Stati Uniti. Una nuova Lehman Brothers con gli occhi a mandorla? Non proprio. Semmai, solo applicazione della politica monetaria. E sembrerebbero confermarlo le mosse della People’s Bank of China (Pboc), la banca centrale cinese, unite ai suoi recenti esperimenti sul mercato interbancario.
D’improvviso, la paura. La settimana scorsa il tasso interbancario cinese a sette giorni (una misura del prezzo che gli operatori finanziari devono pagare per procurarsi la liquidità necessaria sul mercato) ha toccato un picco di quasi 11%, con uno scatto di quasi 270 punti base in un solo giorno. L’impennata è stata preceduta da una serie di accelerazioni spalmate su un periodo di qualche settimana. Le scosse avevano cominciato a farsi sentire, con scostamenti anche significativi del tasso dal valore storico di 3 per cento. Per un paio di giorni, però, le tensioni sul mercato interbancario cinese hanno raggiunto livelli visti negli Stati Uniti nel 2008, in occasione del crash di Lehman Brothers. Poi l’emergenza è rientrata, e il tasso interbancario è sceso per assestarsi intorno a un livello più contenuto, l’8%, segno che almeno per stavolta il rischio di un repentino e massiccio collasso finanziario sembrerebbe sventato.
Tanto rumore per nulla? Trattandosi di Cina – la cui reputazione in termini di trasparenza non è delle migliori – non è banale capire cosa ci sia davvero dietro i due giorni di paura sul mercato interbancario. Secondo i media locali, come Xinhua, la Pboc avrebbe tollerato l’impennata dei tassi nell’interbancario e fornito solo un numero ristretto d’iniezioni di liquidità, mirate specificatamente alle banche più grosse, benché il problema fosse generalizzato nel settore bancario. Benché i tassi parecchio al di sopra del normale stessero causando non pochi problemi alle banche cinesi, disperate per ottenere liquidità la banca centrale non ha condotto (né annunciato) alcuna erogazione di liquidità di carattere sistematico.
Molti analisti finanziari, fra cui quelli di HSBC e Standard Chartered, sembrano concordare sul fatto che il balzo dei tassi sia almeno in parte il risultato di una deliberata scelta politica. Più precisamente, la Pboc avrebbe voluto «mandare un messaggio» al settore finanziario, stringendo sulla liquidità in circolazione e limitandone i canali. Poi, martedì scorso, la banca centrale cinese ha fatto una completa inversione di marcia e annunciato che fornirà tutta la liquidità necessaria a tutte le istituzioni finanziarie che dovessero averne bisogno. Un’uscita in netto contrasto con la posizione presa dalla stessa Pboc solo pochi giorni prima. Perché?
Per capire la logica della mossa e della contromossa occorre leggere l’accaduto alla luce delle dinamiche più ampie che l’economia cinese sta attraversando. La crescita cinese negli ultimi anni è significativamente rallentata. Non solo: i fondamentali di quell’espansione sono cambiati profondamente, rendendola meno robusta. La performance del commercio con l’estero – tradizionalmente il motore dell’economia cinese – non è più trainante come prima. Allo stesso tempo, il Paese ha visto una crescita esponenziale del credito bancario, alimentata da politiche governative di investimento in infrastrutture e nel settore immobiliare in continua crescita. Dall’inizio della crisi, lo stock di credito è cresciuto del 30% l’anno circa e ha raggiunto il 200% del Pil. E ciononostante, l’economia cinese sembra non essere in grado di recuperare la spinta perduta. Secondo una recente analisi di mercato riportata dal Financial Times, l’economia cinese è ormai assuefatta. Il moltiplicatore del credito all’economia è crollato negli ultimi mesi, con il risultato che la crescita di quest’area si traduce in uno stimolo meno che proporzionale. Più precisamente, per ottenere un aumento del Pi di 1 renminbi servono ormai 3 renminbi di iniezione creditizia.
Il governo di Pechino sembra essersi reso conto già da qualche tempo che questo nuovo modello non solo non è sostenibile nel lungo periodo, ma è anche molto rischioso nel breve. Il tentativo di ravvivare la crescita lenta inondando l’economia di credito ha fatto lievitare il leverage del sistema finanziario, esponendo le banche a notevole pericoli qualora la bolla creditizia dovesse arrestarsi o l’economia dovesse rallentare ulteriormente. China Daily ha recentemente riportato stime secondo cui le cinque maggiori banche cinesi sarebbero già in una posizione molto precaria, in termini di capitale.
La Cina ha segnalato in diverse occasioni (tra cui la riunione del Consiglio di Stato il 19 giugno scorso) l’intenzione di voler moderare la crescita del credito e dirottare una parte maggiore degli investimenti verso settori più produttivi come il settore manifatturiero. Vincoli più stringenti sono stati posti sul credito bancario, nel tentativo di moderare i fattori di espansione all’origine. Il risultato è stato controproducente. L’effetto dei vincoli posti sul settore bancario tradizionale ha infatti rafforzato considerevolmente il ruolo del cosiddetto settore finanziario ombra, lo shadow banking system, cioè un network complesso, poco trasparente e poco regolato che in Cina è divenuto una fonte essenziale di credito per l’economia.
Stime di mercato riportate dal Financial Times suggeriscono che il settore in questione ha raggiunto un volume pari, come minimo, ad un quarto del Pil annuo cinese (altre stime indicano il 50%) e sia in rapida crescita, potenzialmente prossimo a sorpassare il settore assicurativo in termini di dimensioni. Il peso del settore bancario tradizionale nel totale dei prestiti erogati sarebbe sceso dal 95% al 58% negli ultimi 10 anni, mentre il credito erogato sarebbe cresciuto di otto volte nello stesso periodo suggerendo l’esistenza di un effetto sostituzione non da poco.
Lo yuan cinese (Afp)
Dal punto di vista operativo, lo shadow banking cinese ricorda per certi versi il caso dei subprime americani. Una grossa fetta del credito bancario è stata infatti “impacchettata” in prodotti complessi, Wealth management products (Wmp), poi rivenduti ai clienti della banca, come alternativa più redditizia ad un puro deposito bancario. Questo sistema ha consentito al settore bancario tradizionale di spostare una grossa fetta di credito fuori dal proprio bilancio ufficiale, esente dai vincoli regolamentari e fuori da ogni controllo. Insomma, nell’ombra. Lo shadow banking cinese deve parte della propria fortuna anche ai vari governi locali, che si sono indebitati esponenzialmente per finanziare gli investimenti pubblici previsti nel pacchetto di stimolo varato dal governo centrale durante la crisi. In Cina, il governo locale non ha la facoltà di emettere direttamente debito sul mercato. Il vincolo è stato però aggirato dai governi locali istituendo fondi d’investimento da utilizzare come veicolo per piazzare i bond, ancora una volta nell’ombra.
Il governo cinese ha recentemente adottato una linea dura per cercare di limitare la crescita dello shadow banking e porre un limite all’uso di prodotti come i Wmp, in particolare inasprendo in Aprile di quest’anno i requisiti sulla struttura di questi prodotti. La stessa banca centrale aveva lanciato un segnale all’inizio dell’anno, aggiungendo al proprio mandato l’obiettivo di tenere sotto controllo il rischio finanziario. Una mossa letta da molti come un avvertimento alle banche. Da qualche tempo, la Pboc aveva lasciato salire i tassi sul mercato interbancario, probabilmente con l’obiettivo di rendere più costoso per le banche il finanziamento di questi prodotti. Paradossalmente l’aumento moderato dei tassi ha sortito l’effetto opposto, spingendo le banche ad emettere prodotti ancora più rischiosi che fornissero ritorni abbastanza elevati per attrarre depositanti. Secondo recenti analisi di mercato, poco prima della stretta definitiva ci sarebbe stato un aumento di quasi il 70% nel numero dei prodotti stile-Wmp disponibili sul mercato e un aumento del ritorno medio.
La settimana scorsa, la Pboc ha quindi deciso di intervenire più esplicitamente, per mostrando alle banche la vera rischiosità di questi prodotti. Oltre al più che ovvio problema di scarsa regolamentazione il gioco dello shadow banking presenta infatti notevoli rischi di liquidità. Prodotti come i Wmp hanno generalmente scadenza a breve termine, a fronte di investimenti sottostanti di lungo periodo (per esempio investimenti in infrastrutture). Di conseguenza, le banche ricorrono pesantemente al mercato interbancario per finanziare il rimborso dei Wmp a scadenza. E, caso vuole, una tranche di Wmp dal valore di circa 1000 miliardi di renminbi aveva scadenza proprio negli ultimi 10 giorni di giugno. Tempismo perfetto.
Gli effetti sul mercato interbancario sono stati dirompenti. Forse troppo, e questo spiegherebbe il repentino cambio di rotta della Pboc. Il mercato azionario è infatti crollato del 10% nella settimana della stretta, per poi peggiorare fino al momento in cui la banca centrale si è dichiarata disponibile a fornire liquidità. La stretta ha impattato significativamente anche il mercato dei bond cinesi, fortemente penalizzati dal timore che la linea dura della Pboc potesse avere effetti negativi sulla crescita de credito e di conseguenza ridurre ulteriormente la già incerta crescita cinese. Al tempo stesso un calo significativo nella crescita cinese avrebbe senz’altro effetti a livello globale, impattando sia gli investimenti cinesi all’estero che le importazioni della Cina dai partner commerciali. Di fronte allo scenario di un vero e proprio crac finanziario, la banca centrale cinese ha quindi cambiato rotta. Ma gli analisti concordano nel prevedere che i tassi sul mercato interbancario rimarranno significativamente più alti che in precedenza. Per la Cina, una nuova normalità è forse iniziata.