Per ridurre il debito pubblico serve tornare a crescere

Il macigno che frena il paese

 Un investitore che considera l’acquisto di titoli del debito pubblico deve farsi una idea dei rischi in termini di vedere rimborsato il prestito a scadenza. Gli Stati molto affidabili riescono a collocare facilmente, a tassi di interesse bassi, i proprio titoli perché chi ha dei risparmi ha un interesse a comprarli per potere trasferire le proprie risorse nel futuro proteggendole dall’inflazione. Gli Stati meno affidabili, invece, dovranno convincere i risparmiatori a scegliere i propri titoli piuttosto che quelli di prenditori più affidabili, e ci riusciranno solo offrendo rendimenti più alti. Il maggiore rendimento compensa il maggiore rischio.

L’affidabilità nel mercato del debito pubblico è legata alla capacità del sistema economico nel suo complesso di produrre, nel tempo, le risorse necessarie a rimborsare il debito. Queste risorse sono le entrate fiscali, legate alla crescita di un paese. E la crescita, nel medio periodo, è legata alla produttività di un paese.

Da un punto di vista strettamente contabile, il debito pubblico di un paese aumenta se il bilancio pubblico è in disavanzo, e si riduce in caso contrario. Il debito pubblico è infatti dato dall’accumulazione nel tempo dei deficit (o surplus) di bilancio. Quindi, per valutare gli interventi in grado di ridurre lo stock di debito pubblico esistente, è importante considerare le diverse componenti del bilancio pubblico: i) la spesa per interessi sul debito esistente; ii) e il saldo di bilancio primario (ovvero, la differenza tra entrate e spese pubbliche al netto della spesa per interessi).
Per usare una rappresentazione analitica, potremmo scrivere:

Deficit = Tasso di Interesse x Debito + Spesa Pubblica – Entrate Fiscali

La prima componente, ovvero la spesa per interessi, si riduce se: i) si riduce lo stock di debito esistente, oppure se ii) si riduce il tasso di interesse. La seconda componente, il cosiddetto saldo primario, si riduce se i) si taglia la spesa pubblica, oppure se ii) aumentano le entrate fiscali (per l’introduzione di nuove tasse o per l’aumento del reddito prodotto). Mettendo da parte l’opzione di un ulteriore aumento della pressione fiscale, che in Italia ha raggiunto livelli poco sostenibili, le strade per ridurre il deficit di bilancio sono quindi essenzialmente:

1. Minori tassi di interesse (ovvero, maggiore fiducia da parte degli investitori)
2. Abbattimento immediato (una tantum) dello stock di debito esistente
3. Riduzione della spesa pubblica
4. Aumento della capacità di crescita del paese

In questi giorni si discute nuovamente di manovre straordinarie per la riduzione dello stock di debito pubblico italiano, che ha recentemente raggiunto il 130 percento del Pil. Interventi una tantum di riduzione dello stock di debito incidono sulla prima componente del bilancio pubblico (la spesa per interessi). Questa volta tocca al Pdl, come ben descritto da Fabrizio Goria per Linkiesta.

Nella sostanza, il piano si divide in quattro parti. La prima prevede una vendita di beni pubblici per 100 miliardi in 5 anni (il cosiddetto piano Grilli). La seconda, la cessione di concessioni demaniali per 40-50 miliardi. La terza, un accordo fiscale con la Svizzera che dovrebbe garantire tra i 25 e i 35 miliardi di euro in un arco di 5-7 anni. La quarta prevede la cessione a una società di diritto privato, con azionisti banche, fondazioni e Cassa Depositi e Prestiti, di una serie di attività non strategiche dello Stato. Questa società emetterebbe poi obbligazioni garantite da queste stesse attività per raccogliere sul mercato le risorse per ripagare lo Stato: si prevede poco più di 200 miliardi di euro. Nel complesso, questo piano ha come obiettivo la riduzione del debito pubblico per circa 400 miliardi di euro, pari al 25% del Pil, in 5 anni.

Da un punto di vista macroeconomico, il vantaggio di un intervento di questo tipo è la rapidità dell’effetto sul volume complessivo del debito. Gli svantaggi sono invece legati alla sua natura di misura una tantum quando non accompagnata da misure di carattere strutturale. In questo caso, una riduzione del debito potrebbe essere addirittura sterilizzata da un ulteriore aumento dei tassi di interesse.

Naturalmente, la vendita di parte del patrimonio pubblico non andrebbe a modificare la ricchezza netta del paese: se da un lato lo stock di debito scende, dall’altro scendono anche le attività. La composizione della ricchezza netta invece cambia e se le attività privatizzate saranno gestite dai privati meglio di quanto oggi fa lo Stato, è possibile che l’effetto finale sia di crescita per il Pil. Tuttavia, una parte di questo patrimonio costituisce garanzia implicita sul debito in circolazione e sul debito che il nostro paese emetterà in futuro. Quindi, una riduzione del patrimonio, soprattutto se non accompagnata da misure credibili e efficaci sulla crescita e sulla capacità di generare entrate fiscali, potrebbe portare a un aumento del costo del debito.

Stime del patrimonio pubblico, a valori di mercato, sono molto difficili. Quelle a disposizione (per esempio, di Edoardo Reviglio) valorizzano il patrimonio pubblico per circa 1.800 miliardi di euro. La quota totale che potrebbe in principio essere alienata è pari a circa 700 miliardi di Euro e include tutti gli immobili dello Stato, tutte le partecipazioni in società per azioni, tutte le infrastrutture e tutte le risorse naturali. Supponiamo che il piano proposto dal Pdl sia fattibile e vada a buon fine: quale sarebbe il risultato finale? La riduzione per 400 miliardi di euro del debito pubblico porterebbe il debito a circa il 105% del Pil e un risparmio lordo di circa 18 miliardi di euro annuo di spesa per interessi (o circa 1% del Pil).

Perché l’ammontare di risorse disponibili nel paese per investimenti aumenti dopo l’ipotesi di alienazione di parte del patrimonio pubblico, è necessario che gli acquirenti siano in maggiore parte investitori esteri. Infatti, secondo il piano proposto dal Pdl, circa 200 miliardi di euro dovrebbero provenire dalla cessione a una società formalmente indipendente di beni dello Stato. Questa società emetterebbe poi obbligazioni garantite da questi beni per ripagare lo Stato e valorizzerebbe questi beni procedendo ad una vendita dilazionata nel tempo. Questo veicolo finanziario dovrebbe quindi drenare nuove risorse finanziare dal mercato e qualora gli acquirenti fossero investitori domestici, le risorse utilizzate, a meno di non provenire da impieghi esteri, sarebbero sottratte a impieghi domestici.

D’altronde, sembra molto difficile che gli investitori italiani possano fornire tanta liquidità. Come metro di paragone possiamo tenere a mente che l’industria del risparmio gestito italiano raccoglie circa 90 miliardi di euro per anno. È da notare che anche qualora queste risorse fossero disponibili, il loro utilizzo porterebbe a una forte diminuzione del totale dei depositi bancari e una conseguente stretta del credito con chiare conseguenza recessive per la nostra economia. È bene ricordare che il veicolo finanziario creato ad hoc sarebbe sostanzialmente un Collateralized Debt Obbligation (Cdo). È facile prevedere che questo veicolo avrebbe un rating non superiore, anzi molto probabilmente inferiore, a quello del debito pubblico italiano appena declassato a BBB da Standard&Poor’s. Quindi, il costo di finanziamento attraverso questo veicolo sarebbe probabilmente superiore al costo attuale di finanziamento sui mercati per l’Italia, rendendo l’operazione di dubbia utilità dal punto di vista finanziario.

Gli obiettivi del fiscal compact (ovvero, la riduzione del rapporto Debito/Pil per l’Italia di circa 3 punti di Pil all’anno per venti anni) sono realizzabili anche senza interventi una tantum, e senza il ricorso a manovre lacrime e sangue paventate da numerosi commentatori. È sufficiente notare infatti che politiche credibili di promozione strutturale della crescita che riportino i tassi di interesse ai valori medi degli anni 2000 (circa il 4 per cento) e producano tassi di crescita “realistici” (intorno all1%), implicherebbero riduzioni annue del rapporto Debito/Pil del tutto consistenti con il fiscal compact. 

Per l’Italia è cruciale intervenire sul tasso di crescita reale del paese e sui tassi di interesse che paghiamo sul debito esistente. In questo senso, la stabilità politica e la credibilità di una politica economica impostata su orizzonti di medio periodo sono elementi essenziali.

Twitter: @nicolaborri

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