Il tema è frusto soltanto in apparenza. Nata negli anni ’70 dalla Scuola di Chicago, l’idea di considerare la massimizzazione del ritorno per gli azionisti come metro per valutare la capacità del management è oggi ampiamente criticato. Eppure, come sostiene questo articolo scelto per voi da The Atlantic e scritto da Justin Fox, direttore della Harvard business review, sembra che ricerca accademica e prassi societaria non siano ancora state in grado di sviluppare un modello alternativo altrettanto semplice. Abbiamo chiesto a Giorgio Arfaras, direttore della Lettera Economica del Centro Einaudi e a Umberto Cherubini, docente di Finanza quantitativa all’Università di Bologna, di ragionare sul tema, proponendo loro di commentare questo contributo. Per Arfaras il limite dello shareholder value sta nella sua ottica di breve termine: come dimostra la storia delle banche tradizionali, concentrarsi sui prestiti a famiglie e imprese più che sul capitale di rischio, che ovviamente rende di più, genera profitti stabili e duraturi nel tempo. Cherubini, invece, ritiene che pur con tutti i suoi difetti, le uniche alternative possibili siano il dirigismo statale o i ”salotti buoni all’italiana”, dove gli azionisti rilevanti e sindacati guadagnano mentre il parco buoi degli azionisti di minoranza viene inesorabilmente bastonato. La riflessione che proponiamo non è soltanto finanziaria, ma chiama in causa la Politica, a cui spetta scrivere le regole (e alle authority controllare che siano rispettate senza girarsi dall’altra parte) per rendere il mercato dei capitali trasparente e definire il quadro normativo all’interno del quale possa vincere – partendo tutti dalla medesima linea di partenza – chi è in grado di garantire ritorni a lungo nel rispetto della società. (Antonio Vanuzzo)
Si potrebbero collegare molti aggettivi alle grandi banche che sono cadute nel baratro durante le crisi finanziarie del 2007 e del 2008: avventate, voraci, arroganti, ottuse. Ma eccone un altro che sicuramente ci viene in mente meno facilmente: “amiche degli azionisti”. È ciò che sono state. Numerosi studi hanno provato che più le corporate governance di una banca e i bonus del top management andavano in crisi, più la banca inevitabilmente si mette nei guai. Un’attenzione malriposta nel soddisfare gli azionisti sembra debba essere aggiunta alla lista delle cause del crollo.
È sensato: gli azionisti provvedono a finanziare solo in piccola parte le banche (la maggior parte arriva dai depositi e dagli obbligazionisti), ma se la banca registra enormi profitti i rialzi vanno tutti in tasca loro. E, come abbiamo imparato nel 2008, talvolta il governo interviene per evitare il fallimento delle grandi istituzioni finanziarie. E quindi, dalla prospettiva di un azionista, un amministratore delegato di una banca che si prende dei grandi rischi che possono mettere a repentaglio l’intero sistema finanziario sta semplicemente facendo il suo lavoro.
Questo scostamento tra gli interessi degli azionisti di una banca e quelli della società è ora ampiamente compreso nei circoli accademici. Eppure l’anno scorso, quando Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan Chase, era sotto pressione per le perdite causate dai trader londinesi, si precipitò ad assicurare i mercati che stava per “massimizzare il valore economico degli azionisti”. I dirigenti delle banche puntano regolarmente alla redditività del capitale proprio (in poche parole, al ritorno per gli azionisti) come la metrica più importante. E quando il Congresso ha scritto le nuove regole per il settore bancario, il Dodd-Frank Act del 2010 ha incluso numerose disposizioni per rendere più reattive le banche e le aziende nei confronti dei loro azionisti.
Cerchiamo di capire bene. Le grandi banche che enfatizzano il ritorno per gli azionisti sono state considerate come delle minacce per la società. Ancora oggi, una delle principali risposte ai problemi delle banche è stata quella di…riaffermare il primato degli azionisti.
È questo il potere dell’ideologia conosciuta come “valore degli azionisti”. Questa nozione secondo la quale gli interessi degli azionisti dovrebbero avere la supremazia non è sempre stata diffusa così profondamente nell’economia americana. Divenne largamente accettata solo negli anni Novanta, e a partire dal 2000 cominciò a essere pesantemente criticata dagli economisti e dagli studiosi di legge, e tra pochi altri che dovreste conoscere (l’ex ad di General Electric, Jack Welch, dichiarò nel 2009: “Il valore degli azionisti è l’idea più stupida del mondo”). Ma in pratica – nella retorica di molti dirigenti, nel modo con il quale essi sono pagati e valutati, nelle riforme del governo che vengono proposte e talvolta, emanate, e in quasi ogni rappresentazione mediatica del conflitto aziendale – noi siamo completamente fissati sull’idea secondo la quale servire gli azionisti in modo migliore possa a sua volta aiutare le aziende a funzionare meglio. È semplice e intuitivo. Semplice, intuitivo, e molto probabilmente sbagliato – e non solo per le banche ma per tutte le aziende.
Come ha spiegato Lynn Stout, docente alla Cornell University Law School nel suo libro (datato 2012) Il mito del valore degli azionisti, le aziende americane non sono obbligate a massimizzare i rendimenti per gli azionisti. Sì, il Congresso e i regolatori bancari hanno iniziato a spingere la formazione di norme in questa direzione, e alcune sentenze hanno già favorito la supremazia degli azionisti. Ma nel complesso, scrive Stout, la legge enuncia che i consigli di amministrazione non appartengono agli azionisti ma all’azienda stessa, il che significa che devono bilanciare gli interessi degli azionisti rispetto a quelli di soggetti interessati quali dipendenti, clienti, fornitori, detentori di titoli di debito e, più in generale, della società.
I sostenitori del “valore degli azionisti” sostengono che, indipendentendemente da ciò che dice la legge, le aziende avrebbero più successo – e quindi produrrebbero una maggiore quantità di beni – se dirigenti e comitati spendessero meno tempo ad equilibrare i vari obblighi nei confronti dei diversi soggetti e invece si interessassero a garantire soldi per gli azionisti. Questa idea iniziò a diffondersi all’Università di Chicago e, tra gli anni Sessanta e Settanta e pochi altri campus, e sta ritornando a far parlare di sé in questo momento storico. Le aziende americane hanno cercato di far fronte alla competizione globale e il cambiamento tecnologico, anche se la maggior parte di esse ne erano favorevoli. Se solo i dirigenti fossero stati forzati a porre più attenzione al crollo dei prezzi delle azioni nelle loro aziende – con la minaccia di un’Opa ostile, forse, o con un forte collegamento tra i loro salari e i prezzi delle azioni – avrebbero potuto rischiare qualcosa in più e arrivare finalmente ai cambiamenti che il momento storico richiedeva. E così è cambiata la prospettiva.
Queste discussioni hanno iniziato a rimodellare la pratica aziendale a partire dagli anni Ottanta. Dalla metà degli anni Novanta, si sono coagulati nella semplice dottrina secondo cui l’obiettivo di un direttore generale è quello di rendere soddisfatti gli azionisti. I bonus sono stati riempiti di stock options, e un nuovo e intransigente branco di investitori professionali ha cominciato a mettere pressione sui consigli d’amministrazione per sbattere fuori i top manager ogni volta che il prezzo delle azioni dell’azienda scendeva. Alla base di entrambe le pratiche c’era la convinzione che i prezzi delle azioni fossero il parametro più adatto per valutare la performance aziendale – e che quindi fosse abbastanza facile giudicare se un amministratore delegato stesse facendo un buon lavoro o meno. Per pochi anni gloriosi, il meccanismo sembrava funzionare. Corporate America, dopo il ritardo percepito nei confronti dei propri concorrenti giapponesi e tedeschi, fece una spettacolare rimonta, e l’economia americana si espanse a sua volta.
Questo periodo di massimo splendore finì con il collasso della borsa, che iniziò nel 2000. Lo scoppio della bolla tecnologica demolì la nozione secondo la quale i prezzi delle azioni sono indicatori affidabili del valore aziendale. E, mentre l’economia si contraeva, il modello aziendale americano guidato dagli azionisti cessò di sembrare così palesemente superiore ai suoi concorrenti dell’Asia e dell’Europa continentale. L’assalto intellettuale sul valore azionario ha cominciato ad aumentare e, da allora, sta continuando a guadagnare forza.
A onor del vero, la tesi a sfavore della supremazia degli azionisti non è stata così dirompente per tutte le aziende quanto lo è stata per le istituzioni finanziarie altamente indebitate, troppo grandi per fallire. Al di fuori del settore bancario, l’evidenza empirica riguardo la dottrina è molto più suggestiva che dispositiva. I sostenitori dei diritti degli azionisti puntano su alcuni studi che evidenziano come certi cambiamenti favorevoli agli stessi azionisti, come ad esempio la rimozione di barriere nei confronti delle Opa ostili, tendono a portare ad un rialzo dei prezzi. Gli scettici invece sostengono che ciò non dica molto sull’impatto di lungo termine, e si concentrano su una serie più ampia, ma approssimativa, serie di indicatori. La performance della borsa americana, da quando il valore dell’azionista divenne dottrina negli anni Novanta, è stata deludente, e il numero di società quotate è diminuito drasticamente. La nazione nella quale gli azionisti detengono i poteri più ampi, il Regno Unito, ha un anemico settore industriale. Tant’è che nella lista compilata dalla rivista Fortune sulle 100 società più grandi del mondo ne può infatti contare solo tre, contro le 9 francesi e le 11 tedesche, dove gli azionisti detengono meno influenza. Molteplici studi condotti su aziende che rimangono esempi di successo nel corso del tempo – i più famosi dei quali sono i meticolosi libri di ricerche del professore di Standford, nonché freelance e business-guru, Jim Collins, come Good to Great – hanno dimostrato che essi tengono ad essere governte con obiettivi e da principi diversi dai rendimenti degli azionisti.
I libri di Collins evidenziano la più comune critica della massimizzazione del valore per l’azionista: pur essendo ottimo l’offrire grandi ritorni nel tempo (si tratta, infatti, della misura principale di “grandezza” secondo Collins) concentrarsi soltanto su questo aspetto non porterà ai risultati sperati. Questo è il punto a cui voleva arrivare anche Jack Welch. In un mondo complesso, non potrai mai sapere quale “azione” massimizzerà il ritorno agli azionisti, da qui a 15 o 20 anni. Inoltre, la maggior parte degli azionisti non detiene i titoli per molto tempo, quindi concentrarsi sui loro problemi incoraggia una preoccupazione non produttiva sulle oscillazioni a breve termine dei prezzi delle azioni. Potrebbe infine rivelarsi terribilmente difficile motivare gli impiegati o invogliare i clienti con il motto “Massimizziamo il valore degli azionisti”.
Una vecchia rimostranza che ha guadagnato terreno soprattutto a partire dalla crisi finanziaria è che massimizzare i ritorni per gli azionisti, anche sul lungo termine, potrebbe non essere la scelta migliore per la società. Questa critica è stata applicata a lungo alle aziende che usano molte risorse naturali o che inquinano pesantemente l’ambiente. Chiaramente ora è una questione che riguarda anche le grandi banche. Gli stessi ricercatori hanno cercato di capire come le imprese, nel massimizzare i rendimenti degli azionisti, sono in grado di modellare le regole del gioco (leggi fiscali, norme contabili) per incrementare i profitti danneggiando l’economia.
Nessuno di questi critici ha però presentato una teoria di governo societario così semplice come il valore degli azionisti. Ma in un nuovo libro, Firm Commitment: Why the Corporation Is Failing Us and How to Restore Trust in It, l’economista britannico Colin Mayer offre una prospettiva aziendale che perlomeno spiega il cocnetto di valore per l’azionista.
Secondo quanto sostiene Mayer, le società si affermano assumendo impegni con dipendenti, clienti, fornitori e azionisti. Molti di questi impegni vanno ben oltre i requisiti contrattuali e, in ultima analisi, essi sono ciò che rende possibile a lungo termine il successo degli investimenti e del business. Mettere autorità nelle mani di azionisti che possono vendere tutto in qualunque momento rende difficilmente credibili gli impegni di un’azienda. Nel corso del tempo, continua Mayer, ciò restringe le possibilità di sviluppo, drenando le risorse a disposizione delle altre parti interessate.
Mayer offre alcune proposte per rafforzare questo impegno. Una di queste è la creazione di “imprese fiduciarie”, i cui consigli d’amministrazione saranno incaricati di garantire il perseguimento, oltre al profitto, di obiettivi e principi. Un’altra è la vendita di azioni che offrono maggiore potere di voto in cambio di un impegno a non venderle per un certo numero di anni. Ma il suo messaggio generale è che non esiste un solo modo giusto per gestire una società.
Mayer, in precedenza rettore della Saïd Business School dell’Università di Oxford, ha studiato il governo societario dagli anni Ottanta. Ha visto i trend arrivare e andarsene (è abbastanza difficile da crederci ora, ma il giapponese keiretsu [le reti d’imprese, ndr] era, un tempo, oggetto di globale ammirazione). La sua esperienza lo ha portato a pensare che nessuno ha una risposta in tasca – e che i personaggi più pericolosi nel governo societario sono quelli che pensano di averla.
Egli è pertanto un ammiratore del sistema americano, che permette una significativa varietà dei modi con cui sono gestite le aziende (anche perché ogni Stato fissa le proprie regole). Ma Mayer si dice preoccupato degli attuali tentativi fatti dai legislatori e dalle autorità di regolamentazione federali di dare sempre più voce agli azionisti. “La direzione di marcia della politica americana è molto più verso l’intensificazione della pressione da parte degli azionisti”, dice Mayer. Quest’ultima ha tutte le caratteristiche per diventare la direzione peggiore.
(traduzione di Giovanni Ferrari)
Articolo di Justin Fox scelto per voi da The Atlantic
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