Durante l’ultimo ritiro di Pinzolo, il neo giocatore dell’Inter Ishak Belfodil si allenava quasi sempre mezza giornata. Nessun infortunio, né pigrizia. Belfodil, algerino di passaporto francese, come ogni musulmano praticante sta osservando il Ramadan, il precetto religioso che impone di astenersi dal bere, mangiare, fumare e praticare attività sessuale dall’alba fino al tramonto per un mese. Una scelta religiosa ma con risvolti sportivi: non potendo alimentarsi né idratarsi non ha potuto sostenere i carichi di lavoro, divisi in due sessioni giornaliere, tipici di una preparazione estiva. Il Ramadan impone anche l’astensione da ogni cattivo pensiero: chissà allora cosa gli sarà passato per la testa quando nella prima amichevole Belfodil ha fallito ben due rigori.
Non è la prima volta che lo sport affronta la questione del Ramadan. Che impone anche di non litigare, né mentire né calunniare. Ci andò vicino Josè Mourinho, al litigio, nel 2009. Il tecnico portoghese, secondo il Daily Star, finì nel mirino di alcuni estremisti islamici. Lo Special One, nell’occasione, aveva ipotizzato che il rendimento del centrocampista Sulley Muntari, ghanese di fede islamica, fosse stato condizionato dal digiuno imposto dai precetti islamici nel nono mese del calendario musulmano. Devi tacere, fu la piccata reazione su alcuni forum on-line. Mourinho risolse la questione dando la colpa ai giornalisti, che avevano travisato le sue parole. Stefano Tirelli, docente di scienze motorie all’università Cattolica di Milano, con Muntari ha lavorato, avendo in passato collaborato con le nazionali di Ghana, Qatar e Nigeria. Poco tempo fa, in un’intervista ad Adnkronos Salute, ha spiegato: «Per l’atleta che rispetta il Ramadan può esserci un calo della prestazione, che può arrivare anche al 20 per cento. Va colmata la lacuna proteica che si viene a creare e per questo l’ideale è optare per i legumi da far mangiare dopo il tramonto. Le società più importanti poi creano un percorso nutrizionale e di allenamento su misura. Questi calciatori devono bere molto, assumere anche integratori, quando è possibile e adeguare gli orari del sonno, visto che la cena è spostata più tardi».
In Italia non sono molti i calciatori di fede islamica, ma a parte il caso Mourinho-Muntari le società si sono tutto sommato adeguate alla scelta dei calciatori. Così come a loro volta i professionisti del pallone (vedi Fabio Cannavaro) hanno fatto in Paesi arabi come Dubai o gli Emirati Arabi Uniti. Spiega ancora sempre Tirelli: «Qui giocare e allenarsi nel mese del Ramadan diventa molto difficile. L’allenamento inizia dopo la cena, verso le 23, e si arriva fino alle 2-3 di notte. Tutto è rivoluzionato, così anche il riposo e il recupero. E non sempre questo si concilia con tornei internazionali come il Mondiale».
In Germania, per aiutare gli atleti il Consiglio Centrale dei Musulmani tedesco (Zmd) ha stabilito delle linee guida per assistere i calciatori nelle proprie decisioni. Il suo leader, Aimen Mazyekm, ha precisato che le prescrizioni religiose possono essere interpretate in maniera “soft”: «Crediamo che l’opinione di aderire rigorosamente al Ramadan senza considerare l’attività fisica professionistica sia una posizione minoritaria che non rappresenta la totalità dell’Islam». Nel 2010 fece grande scalpore la decisione del club di seconda divisione SSV Frankfuert, di inviare una lettera di richiamo ufficiale a tre giocatori perché rispettavano i precetti imposti dal Ramadan, senza però averne chiesto il permesso al club.
Nella maggior parte dei casi, agli atleti è lasciata libera scelta. Funziona come per gli ebrei quando si tratta di osservare lo Shabbat, in sostanza. Franck Ribery, calciatore francese convertito all’Islam, digiuna durante gli allenamenti ma non durante il week end, quando è ora di giocare. Ma la questione non riguarda solo il calcio. Uno dei più grandi giocatori di basket della storia dell’Nba, il nigeriano Hakeem Olajuwon, in 17 anni di professionismo ha sempre rispettato il Ramadan. E c’è stato anche chi, nel basket, non ha partecipato a competizioni ufficiali. Come Ibrahim Jabeer, che nel 2009 non andò agli Europei con la sua nazionale adottiva, la Bulgaria, perché la competizione coincideva con il Ramadan e lui non voleva interrompere il digiuno.
E poi c’è chi sceglie di non digiunare. Lo hanno fatto in tanti lo scorso anno, quando il Ramadan si sovrappose ai Giochi olimpici di Londra 2012. All’interno della selezione olimpica britannica, gli atleti di fede islamica Abdul Buhari, Husayn Rossowsky, il mezzofondista Mo Farah, vincitore di due ori, e Moe Sbihi continuarono ad assumere cibo e liquidi. Saeed Abdul Ghaffar Hussain, segretario generale del Comitato Olimpico nazionale degli Emirati Arabi Uniti, all’inizio dei Giochi spiegò: «Se segui la religione, in alcuni casi è consentito rompere il digiuno, compensando poi in momenti successivi». Rossowsky e Farah decisero di “recuperare” il Ramadan in un altro periodo dell’anno. Sbihi donò 60 pasti ai poveri, seguendo un altro precetto islamico, quello della carità verso i più bisognosi. «Gareggiare a digiuno è un rischio enorme – commentò -. Non hai energia e potresti anche collassare durante la gara. Le Olimpiadi sono un’opportunità che ti capita una volta nella vita e io non la voglio sprecare», spiegò il canottiere.
Londra 2012 è stata un’occasione anche Oussama Mellouli, nuotatore tunisino che ha vinto per la prima volta ori olimpici per il suo Paese. Eppure, non tutti hanno apprezzato la condotta religiosa del nuotatore, reo di essersi dissetato durante la 10 chilometri di fondo, nella quale ha vinto l’oro. «Perché hai bevuto e mangiato mentre nuotavi per 10 chilometri?», gli ha chiesto un gruppo radicale su Facebook. Lo stesso che se l’è presa anche con Habiba Ghribi, altra tunisina, colpevole di aver ottenuto l’argento olimpico nei 3000 siepi con un abbigliamento troppo scoperto. Devono forse essersi scordate di Nawal El Moutawakel, marocchina che ai Giochi di Los Angeles, nel 1984, vinse l’oro nei 400 metri. All’epoca, Nawal ricevette migliaia di lettere da donne arabe, che scoprirono che si poteva aspirare all’emancipazione grazie allo sport. Ma questa, in fondo, è un’altra storia.