In parte ha giovato la rarefazione di argomenti più interessanti (dovuta alla stagione estiva) a far sì che l’esternazione del musicista Giovanni Allevi, compositore e direttore d’orchestra non finisse, come meritava, nel vuoto. Invece tiene banco. «Credo che in Beethoven manchi il ritmo, e io ho capito cos’è solo con Jovanotti. Nei giovani manca l’innamoramento per la musica classica perché manca di ritmo», ha detto. Il polverone che ne è seguito (di cui fa parte questo stesso articolo) è forse esagerato: in ogni caso, senza entrare nel merito (se c’è) della questione, le parole di Allevi qualcosa di interessante ce l’hanno. Il confronto tra Jovanotti e Beethoven suona eretico, ma soprattutto eretico è il fatto che Jovanotti sia considerato meglio di Beethoven. Insomma, il punto è la stroncatura del mostro sacro (in questo caso il compositore Beethoven), dell’artista entrato nella storia, celebrato nei secoli a venire e mai messo in discussione.
Non si tratta di una cosa insolita. Contro Beethoven, ad esempio, si è lanciato anche lo scrittore Alessandro Baricco: nel suo film Lezione ventuno (meno noto rispetto alla Leggenda del pianista sull’Oceano, tratto da un suo libro da Giuseppe Tornatore) fa a pezzi la Nona sinfonia. Una buona lista di altri esempi la presenta Laura Miller in un articolo apparso su Salon. C’è Mark Twain che in un saggetto velenoso e divertente distrugge Fenimore Cooper e il suo racconto Il cacciatore di cervi, del 1841. O un tal Joseph Epstein che un giorno decide che Franz Kafka non è davvero bravo come si dice e decide di comunicarlo al mondo scrivendolo sull’Atlantic. Oppure ancora Kathryn Schulz che se la prende con Scott Fitzgerald e la sua ipocrisia e spiega «Perché disprezzo Il Grande Gatsby». O il caso di Vladimir Nabokov, che dava per scontato il valore nullo delle opere di Dostoevskij tanto da non parlare di lui nemmeno nei suoi corsi di Storia della letteratura russa.
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In fondo a questo atteggiamento dissacrante c’è chi intravede, più che una reale presa di posizione estetica, un risentimento figlio dell’invidia. Non è sempre detto: attacchi del genere, un po’ contrarian, sono al tempo stesso una manna per il narcisismo di chi li formula (“Visto? Voi credete che Beethoven sia un grande, e invece è meglio Jovanotti”) e per gli interessi di chi li pubblica. La discussione che ne deriva è spesso molto accesa, i lettori si dividono tra chi ribadisce l’ovvio (“Ma no, Beethoven è molto meglio di Jovanotti”) e chi non riesce a credere di aver finalmente trovato qualcuno che la pensa come lui (“Ci voleva qualcuno che dicesse che Jovanotti è meglio di Beethoven”). Più se ne parla e meglio è. L’autore della critica si guadagna il suo quarto d’ora di gloria, esce per qualche tempo dal cono d’ombra ed è felice. Certo, poi la buriana passa e ce ne si dimentica. Ma vuoi mettere?
Va detto che ci sono anche motivi più profondi della ricerca di notorietà. Quando Bertrand Russell si scaglia contro Socrate, nella sua Storia della Filosofia Occidentale, era già famoso in tutto il mondo (solo cinque anni dopo avrebbe vinto il Nobel). Non aveva, insomma, bisogno di farsi notare. Epperò secondo lui Socrate era «disonesto e sofistico nelle sue argomentazioni; nel suo modo di pensare fa uso dell’intelletto solo per arrivare alle conclusioni che piacciono a lui e non per una ricerca disinteressata della verità. C’è qualcosa di compiaciuto e untuoso nel suo modo di fare che mi ricorda quello di un cattivo prete». In fondo lo pensano tutti: Socrate è sleale e gioca sporco, ma l’ingenuità – voluta – di Russell è forse più grave, perché considera reale quello che è solo un personaggio tratteggiato da Platone. Perdonabile, in realtà, perché l’urgenza di demolire uno dei capisaldi del pensiero filosofico è stata più forte di lui. E perché liberarsi di mostri sacri dà anche un forte senso di liberazione.
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I casi sono tanti. Il metodo uno solo: colpire uno grande, senza sparare nel mucchio. Meglio se morto da decenni, o secoli (o millenni, come Socrate), e – se possibile – con argomenti solidi. Se non li si ha, va bene lo stesso. Le finalità, poi, possono variare. Si è già detto della ricerca di fama, o del gusto della rottura degli schemi, ma merita una certa attenzione un’ultima categoria: quella di colpire il “grande” del passato per dir male dei presenti. Se li si attacca in via diretta, si rischia di passare per invidiosi e frustrati. Meglio colpire i loro idoli. Fa così anche uno come Giacomo Leopardi, che nelle sue Operette morali se la prende con Virgilio, o, per dirla meglio, con l’acritica accettazione della sua grandezza da parte dei contemporanei. Lucano (autore della Farsaglia) – sostiene – è molto meglio. Eppure è tenuto in minor conto.
Dietro alla sua presa di posizione non c’è solo una battaglia estetica (l’affermazione di un diverso modo di concepire la poesia), ma anche un rimprovero diretto a chi si accontenta di ricevere la tradizione e non la mette in discussione. L’atteggiamento alla “Virgilio è grande? Allora lo dico anche io” è misero. Non vi si esercita alcuna facoltà critica e ci si appoggia a quella di chi è venuto prima. Questa categoria è interessante perché vi appartiene (Leopardi perdoni) anche il caso di Allevi. Lui parla male di Beethoven per colpire il mondo della musica classica accademica di oggi: a suo parere è troppo ingessata, autoreferenziale, incapace di dare uno sguardo critico alla tradizione. Non sa innovare, cosa che – è implicito – saprebbe fare Giovani Allevi e per di più non capisce quanto Giovanni Allevi stia già innovando. Insomma, niente di strano: una critica ai parrucconi dei conservatori. Se si pensa poi che l’attacco ai mostri sacri è una cosa comune, non c’è neppure nulla di nuovo. Solo che lo ha detto d’estate e un po’ si è deciso di parlarne.