Aver decurtato di venti milioni il budget dell’Agenda digitale per finanziare i contributi all’emittenza televisiva locale, come ha fatto il governo Letta, ha significato commettere due errori. Frenata da complicazioni burocratiche e giuridiche, con finanziamenti scarsi e in mancanza di chiari indirizzi sia per la realizzazione delle nuove reti a banda ultralarga che ai piani di digitalizzazione della Pubblica amministrazione, l’Agenda rischia una volta di più di essere declassata da scelta strategica per lo sviluppo del paese a obiettivo secondario. Se è vero che il governo si è impegnato a trovare in altro modo i soldi da destinare alle Tv locali il primo errore sarà recuperato. Occorre tuttavia evitare anche l’altro, quello derivante dal perpetuare il finanziamento all’emittenza televisiva locale così com’è avvenuto negli ultimi anni.
L’Italia ha una lunga storia nel settore, una platea vasta di soggetti presenti nei territori, una casistica ampia di esperienze sia dal punto di vista societario sia da quello della tipologia di prodotto televisivo, in larga parte caratterizzato da palinsesti zeppi di televendite, giochi a premi, maghi e veggenti. Flavia Barca (Le Tv invisibili. Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia, Roma, Rai Eri, 2007) ne ha descritti i caratteri dipingendo un mondo di strutturale debolezza economica (un numero esiguo di Tv locali ha fatturato superiore ai 2 milioni di euro), il rapporto impalpabile con gli utenti, la scarsa propensione all’innovazione, la concezione per la quale la ricchezza dell’emittente è legata al possesso delle frequenze e non all’offerta di contenuti.
La transizione al digitale terrestre, l’affermarsi dell’informazione su internet e, non ultima, la crisi economica che ha fatto crollare la raccolta pubblicitaria, hanno indebolito ulteriormente il settore. Le cronache sono piene di notizie riguardanti la chiusura di emittenti locali e ristrutturazioni dolorose sul piano dell’occupazione.
Un intervento pubblico a sostegno è, quindi, auspicabile. Quello che occorre evitare è l’erogazione di fondi per la mera sussistenza dei player che ancora resistono, rinunciando a una politica industriale che aiuti il settore a inserirsi nel cambiamento che coinvolge l’intero universo dell’informazione e dell’industria della comunicazione.
Non è possibile qui articolare l’analisi di quanto è stato fatto negli anni passati, delle criticità emerse nella distribuzione dei fondi stanziati. È sufficiente ricordare che i contributi, assegnati regione per regione secondo i soggetti presenti sul territorio, sono distribuiti attraverso parametri che nulla hanno a che fare con la qualità dei palinsesti e dell’informazione, con progetti di crescita societaria, con l’integrazione delle piattaforme nuova frontiera dell’impresa editoriale. Hanno a che fare, invece, con i fatturati realizzati nell’ultimo triennio e l’occupazione dell’anno precedente a quello di messa a bando dei contributi.
Stanziare fondi è un passo importante, dettare nuove regole imprescindibile. Regole che puntino a favorire le aggregazioni societarie per creare player locali più forti economicamente e capaci di stare sul mercato, che aiutino progetti multipiattaforma e magari la start up di nuove imprese. Il tutto con attenzione non paludata all’occupazione, tenendo conto cioè della non sostenibilità per vecchie e nuove imprese delle guarentigie antiche dei giornalisti.
*Vincenzo Caciulli è dottore di ricerca in Crisi e trasformazione sociale. È stato consigliere regionale e membro dell’Autorità per le comunicazioni della Toscana. Fa parte della Direzione nazionale del Psi