«Se parli di “oranghi” fai solo crescere il razzismo»

“Lo ius soli è una priorità”

«Mi sono innamorata dell’Italia guardando in tv i Mondiali del Novanta». Sandrine Sieyadji, 38 anni, ride quando racconta i motivi che nel 1992 l’hanno spinta a volare dal Camerun verso l’Italia per studiare Sociologia all’Università “Sapienza” di Roma. E un’appassionata del calcio lo è rimasta. È una tifosa sfegatata di una delle squadre di Roma (leggete l’intervista per scoprire quale) e, a distanza di vent’anni, è responsabile di una delle strutture di accoglienza per profughi della Domus Caritatis di Roma (Gruppo cooperativo “La Cascina”), dove lavorano sette giovani italiani, tra psicologi e mediatori culturali. Quando parla dell’Italia, dice «noi». Perché lei si sente italiana. E in Camerun va solo per le vacanze, ma ogni due anni. Sandrine è ospite del convegno “I percorsi dell’integrazione” all’Hotel Palace di Bari, dove è presente anche il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge.

Sandrine, lei è esempio dell’integrazione nel nostro Paese. Partiamo dal principio. Quando è arrivata in Italia?
Sono arrivata nel 1992 come studente, con un visto di studio, per frequentare il corso di laurea in Sociologia all’ “Università Sapienza” di Roma. All’inizio è stato molto difficile, soprattutto per via della lingua.

Come mai ha scelto l’Italia per studiare?
(Ride) Mi sono innamorata dell’Italia guardando i Mondiali di calcio del Novanta in tv. I miei genitori sono cattolici e mi hanno sempre parlato di Roma.

Quindi è un’appassionata di calcio? Ha anche una squadra del cuore?
Sì, mi piace molto il calcio. Sono una tifosa accanita della Lazio, ma non tutti i romani apprezzeranno. 

E ora si occupa di immigrati.
Quando mi sono inserita, superando tutti gli ostacoli e imparando a conoscere le strutture  che potevano aiutarmi, mi sono posta il problema che c’erano altre persone che come me stavano vivendo gli stessi problemi. Così ho cominciato a fare la volontaria per la Caritas, poi ho seguito un corso di formazione per mediatori culturali. Per un periodo ho lavorato nei centri di accoglienza per i senza fissa dimora, ma poi ho capito che volevo occuparmi degli stranieri appena arrivati in Italia. Un percorso di integrazione ben fatto all’inizio garantisce dei risultati positivi anche dopo. 

Lei si è interessata molto anche all’aspetto sanitario legato all’immigrazione. 
Sì, fino al 1997 non c’era ancora una legge che garantisse il diritto alla salute degli immigrati irregolari. C’erano solo gli ambulatori della Caritas. Ho lavorato in un ambulatorio pubblico, una delle primissime esperienze per garantire comunque il servizio sanitario agli stranieri senza chiedere documenti. Abbiamo fatto una battaglia lunghissima. Finché nel 1997 la Regione Lazio ha approvato la legge, che è stata poi anche estesa a livello nazionale. 

E ora è responsabile di un centro di accoglienza per richiedenti protezione internazionale. 
Sono responsabile di una delle strutture della Domus Caritatis di Roma che si occupa dell’accoglienza dei profughi. Al momento ci sono 35 persone, tutte provenienti da diversi Paesi dell’Africa. Nella struttura lavoriamo in otto. A parte me, gli altri sono tutti giovani italiani. La media d’età è di 35 anni. Li aiutiamo a sbrigare tutte le questioni amministrative e burocratiche, come l’iscrizione a scuola ad esempio. Li sosteniamo in un primo periodo per favorire l’inserimento. 

Qual è il principale ostacolo per gli immigrati che arrivano in Italia?
Certamente la burocrazia. Parlo della mia esperienza: non ho avuto tante difficoltà con le persone. Ho incontrato molte persone che mi hanno aiutata e sostenuta. Il vero problema è la burocrazia. Perché bisogna aspettare otto mesi per avere il permesso di soggiorno? In questo periodo, non si può aprire un conto in banca, non si può affittare una casa, non si può fare un viaggio. È come vivere in una prigione senza mura. Per non parlare della richiesta della cittadinanza. Aspetti anni per avere una risposta. Poi, magari, quando arriva la convocazione per la cittadinanza, i documenti sono scaduti. E quindi devi ricominciare tutto da capo, richiedere i documenti nel tuo Paese d’origine. Insomma, ti ci devi proprio impegnare. 

Lei è cittadina italiana?
No, non ho mai fatto richiesta proprio per i motivi di cui parlavo. Ho un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Richiedere la cittadinanza è una procedura lunghissima. Quando avrò tempo comincerò a fare la fila, ora sono troppo impegnata con il mio lavoro. Certo, avendo solo la carta di soggiorno non posso accedere ai concorsi pubblici ad esempio, ma lavorando nel privato sociale questo finora non ha rappresentato un problema. 

Avrà certamente seguito il dibattito sull’introduzione dello ius soli sollevato, tra gli ultimi, dal ministro Cécile Kyenge. 
Certo, credo sia necessario cambiare la legge in Italia. Ho molti esempi di vita quotidiana che lo dicono. Molti dei miei amici si sono sposati e hanno fatto figli. Abbiamo una generazione di figli che a 18 anni si sentono stranieri, quando invece sono italiani a tutti gli effetti. Anzi, spesso non sono mai stati nel Paese d’origine dei loro genitori. Vivono questo come loro Paese. Ma avere la cittadinanza è un percorso a ostacoli. Ci sono molti che vengono esclusi perché i genitori al momento della nascita dei loro figli non avevano ancora la residenza in Italia. Prima era molto più difficile di oggi ottenere la residenza. Nel mio caso: sono arrivata nel 1992, ma ho ottenuto la residenza solo nel 2001. 

E della presunta battuta di Calderoli cosa ne pensa?
Il razzismo passa anche e soprattutto dalle presunte battute. La comunicazione, soprattutto quella politica, è fondamentale. La nostra è già una società multiculturale. Dobbiamo accettarlo. Non possiamo lasciar passare queste esternazioni. È giusto che sia stato aperto un fascicolo per diffamazione. Ho apprezzato molto la condanna accorata da parte di tutta la società. Non può passare come una cosa normale. 

 @lidiabaratta

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