Mark Laret è l’amministratore delegato del Medical Center dell’Ucsf (University of California, San Francisco), una delle più illustri istituzioni sanitarie nel mondo, e secondo il US News & World Report uno dei dieci migliori ospedali degli Stati Uniti d’America. Scrive però, con molta preoccupazione su Jama, che a causa della crisi lo stato americano ha ridotto del 30% le risorse destinate all’Università della California, e non c’è praticamente nessuna possibilità che in futuro le cose tornino come prima. È preoccupato Laret, perché gli effetti della crisi iniziano a farsi sentire anche negli States, soprattutto in un settore tanto prezioso come la medicina accademica, in cui il Paese è sempre stato all’avanguardia. «È in grave pericolo – scrive Laret – a causa dei tagli senza precedenti dell’istruzione, dell’azzeramento di fondi destinati alla ricerca, e a causa del calo degli introiti ospedalieri». Un quadro familiare agli italiani, anche prima della crisi, ma che senza dubbio questi anni hanno esasperato.
L’Italia era già un Paese che spendeva molto meno di altri per finanziare la ricerca con proventi pubblici ma questa spesa negli ultimi due, tre anni è stata ulteriormente drasticamente abbattuta. «Le risorse per la ricerca di base sono oramai molto esigue in tutto il paese – spiega a Linkiesta Francesco Longo, docente del Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico della Bocconi – e lo stesso vale per la sanità. Lo stesso fenomeno che c’è negli Stati Uniti lo ritroviamo anche in Italia, solo che da noi non fa scalpore perché non consideriamo investire in ricerca come uno dei driver decisivi. L’attuale competizione globale ci rende poco competitivi in settori industriali a basso valore aggiunto come il manifatturiero, piuttosto dovremo competere in settori diversi, come il sanitario: in particolare la ricerca medica, i dispositivi medici, la ricerca dei farmaci e la ricerca per le nuove procedure cliniche. Da noi non c’è sensibilità per il fatto che un importante decurtazione dei fondi in realtà è figlio di una politica industriale sbagliata».
Se ormai i tagli a ricerca e istruzione in Italia non fanno neanche più tanto scalpore, forse qualche emozione in più è suscitata dalla sanità, destinata a offrire sempre meno servizi ai cittadini. Secondo il Rapporto Oasi 2012 condotto dagli esperti della Bocconi e presentato lo scorso marzo, i ticket sui farmaci sono aumentati del 40% nell’ultimo anno e il 55% degli assistiti preferisce pagare di tasca propria le visite specialistiche piuttosto che aspettare mesi d’attesa per poi pagare pressoché le stesse cifre con il ticket. Mentre il numero delle badanti ha addirittura superato quello del personale Asl e ospedaliero. Le regioni continuano a tassare i contribuenti per andare in pari con il bilancio e la spesa sanitaria italiana è tra le più basse d’Europa sia in termini pro-capite che in rapporto al Pil. Per ora la politica adottata dal governo italiano prevede di «tenere abbastanza stabile la spesa sanitaria corrente, azzerando gli investimenti per comprare nuove tecnologie, fare nuovi ospedali e ricerca medica» afferma Longo. «Abbiamo fatto la scelta del “viviamo oggi, poi domani chi vivrà vedrà”, e vedrà male. Non abbiamo avuto la forza politica di soffrire oggi per investire sul futuro: un vizio del nostro Paese che non è capace di guardare al futuro».
«Una visione del futuro miope anche in un ottica puramente finanziaria – continua il professore della Bocconi – perché per riuscire a risparmiare sulle spese correnti bisogna investire nel conto capitale e nell’innovazione tecnologica. Mi spiego meglio, volendo produrre dei risparmi strutturali nel lungo periodo bisogna investire in sviluppo tecnologico: per esempio chiudere tre piccoli ospedali per aprirne uno più grande super tecnologico. Questo riduce il livello della spesa corrente aumentando la qualità. Se però non si fa l’investimento per arginare le spese correnti, si tengono i tre piccoli ospedali. Il che non è neanche lungimirante rispetto all’obiettivo finanziario».
Gli effetti di questa politica si vedono già adesso. Negli ospedali le tecnologie sono obsolete, non ci sono rinnovi tecnologici e quando qualcosa si rompe viene a stento sostituito. E i cittadini da Nord a Sud sono sempre più insoddisfatti, tanto che in media il 43,9% degli italiani giudica inadeguati i servizi offerti dal nostro Ssn. A partire dagli anni ’90 è costantemente diminuito il numero delle case di ricovero pubbliche e i posti letto per degenza ordinaria (pubblici, equiparati e privati accreditati), passando da circa 328.000 nel 1997 a 217.831 nel 2009; mentre è cresciuto il numero di posti letto in day hospital (pubblici, equiparati e privati accreditati) da 22.000 nel 1997 a 30.895 nel 2009 (dati Rapporto Oasi ). Inoltre secondo lo studio “The financial crisis in Italy: Implications for the healthcare sector”, condotto da Antonio Giulio de Belvis e colleghi, hanno subito forti tagli anche gli investimenti per la medicina preventiva, per le infrastrutture di medicina basata sulle evidenze, per i sistemi d’informazione sanitari e per le politiche di benessere per infanzia e migranti per esempio. Nonché la spesa farmaceutica.
Difficile però dire se queste politiche sarebbero state portate avanti in ogni caso e se la crisi ha solo accelerato un processo già in atto. Come è difficile affermare sin da ora se questi tagli hanno avuto delle ripercussioni sulla salute dei cittadini. Certo è – secondo i dati raccolti dall’Osservatorio europeo delle politiche e dei sistemi sanitari – che in tutti i Paesi coinvolti dalla crisi, è peggiorata la salute dei cittadini, mentre la richiesta di assistenza sanitaria è aumentata. In tutta Europa sono aumentati i problemi legati alla cattiva alimentazione, i disturbi psichici, il numero di suicidi, e il numero dei tossicodipendenti. «In Grecia – ha spiegato Willy Palm, membro dell’Osservatorio europeo, durante il seminario Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie ospedaliere) tenutosi lo scorso gennaio a Roma – si registra un aumento dei suicidi del 40% e un aumento considerevole di contagi Hiv legati alla tossicodipendenza. Sempre in Grecia si calcola che circa il 30% dei cittadini, per colpa della crisi, ha rinunciato a curarsi».
E il futuro non appare più roseo, come è facile intuire dalle mosse del Governo italiano. «Al momento non vedo nessun segnale da parte di nessuno per cambiare l’agenda politica del Paese. in questo momento in realtà l’unica prospettiva che ha l’Italia per finanziare la ricerca è guardare dove ci sono i soldi, ovvero sul mercato internazionale. Il mercato garantito dalle multinazionali del farmaco, dei medicaldevice e dei grants dell’unione europea. Le università italiane dovrebbero smetterla di farsi la guerra fra di loro, e iniziare a fare rete per competere a livello internazionale. Ma se pensiamo che è in atto una “guerra” da parte delle Università perché non si insegni in inglese è chiaro che stiamo andando nella direzione opposta».
I comitati etici impiegano mesi per far partire uno studio e non siamo abbastanza attraenti per una multinazionale del farmaco che cerca di snellire i tempi delle sperimentazioni. Mentre il Paese in questi ultimi anni si è abituato a una ricerca domestica, dove ogni polo fa per se e compete con il vicino di casa. Fenomeno accentuato anche dalla regionalizzazione che ha contribuito ad aumentare la logica competitiva invece che collaborativa. «Invece dovremo prendere i primi dieci ospedali italiani metterli in rete e andare sul mercato internazionale. C’è bisogno di un cambio totale di mentalità».
Lo stesso auspicato da Mark Laret che nonostante la preoccupazione per lo stato in cui si trova l’accademia medica in Usa, crede che questa profonda crisi possa essere un’opportunità unica di cambiamento: per la cultura, l’organizzazione e il funzionamento dei centri medici universitari. O forse è anche vero il contrario. Solo con dei cambiamenti strutturali il Paese potrà fare uno scatto e attraversare questa profonda crisi.
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