SIBARI (COSENZA) – È stata distrutta e ricostruita già due volte. E se è vero che la storia si ripete, c’è da sperare che anche dopo l’esondazione del fiume Crati del 18 gennaio scorso, l’antica città di Sibari, divenuta Thurii e poi Copia, potrà rinascere a nuova vita. Anche se, a vedere il fango solidificato al sole che copre ancora le mura e le strade del primo secolo avanti Cristo, solo i più ottimisti ci credono ancora. L’acqua che in pieno inverno ha ricoperto l’intero parco è stata aspirata, gran parte del fango eliminato e messo da parte lì vicino. «Ma per riportare gli scavi al 17 gennaio, il giorno prima dell’alluvione, servono, secondo le stime, 4 milioni e 800mila euro», dice Giovanni Papasso, sindaco del comune di Cassano allo Ionio (Cosenza), di cui Sibari è una frazione. «Abbiamo bisogno di altre risorse e per questo ho scritto al ministro dei Beni culturali Massimo Bray». E ora qui, in piena Magna Grecia, tutti aspettano la sua visita da Roma.
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La situazione dopo l’alluvione – Guarda il video dei Vigili del fuoco
La segnaletica lungo la strada statale 106 ionica non aiuta. Ma una volta trovata l’insegna marrone del parco archeologico è come fare mille passi indietro. Forse di più. Per arrivare al 194 a.C., quando la colonia latina di Copia, sorta su quella di Thurii, nata a sua volta sulla vecchia Sibari, fondata nel 720 a.C. dai greci, brulicava di vita. Niente rumori, il vento soffia di continuo su questa sponda della Calabria e il verso delle cicale scandisce il tempo delle visite turistiche (l’orario di chiusura del sito archeologico varia in base all’ora del tramonto).
I visitatori sono pochi, a dir la verità. Non più di 20-30 al giorno. Il custode ne tiene nota su un grande registro, nella stessa sala in cui è stato sistemato un distributore di bibite fresche. L’unico modo per dissetarsi con la canicola estiva.
I racconti delle guide che accompagnano i turisti lungo il percorso parlano delle guerre tra Sibari e Crotone, dell’assedio e della distruzione dell’antica città e della sua rifondazione. E ormai si intrecciano con quelli sui giorni dell’alluvione, «quando i vigili del fuoco navigavano sugli scavi con un gommone». Ora, a distanza di sei mesi, in piena stagione estiva, tutto è fermo. Ricoperto da un velo di fango. Solo i mosaici sono stati ripuliti. E il parco, dal primo maggio, è stato riaperto parzialmente. La passerella di legno che prima portava nel cuore del parco del Cavallo, con le terme, le botteghe e il teatro di Copia, non è accessibile. Né ci si può avvicinare alla grande strada romana, ripulita solo in parte (gratuitamente) dagli studenti di archeologia dell’Università della Calabria. Intanto le idrovore continuano a pompare acqua sotto terra e a sputarla fuori, «altrimenti qui sarebbe tutto bagnato».
Dopo i primi interventi di pulizia dei resti grazie a un finanziamento di 300mila euro messo a disposizione dal ministero dei Beni culturali, il parco sembra abbandonato a se stesso. Quel 18 gennaio, la rottura degli argini del Crati ha fatto arrivare nell’area archeologica più di 20mila metri cubi di acqua e detriti. Da allora, il sindaco di Cassano ha lanciato più di un appello, anche al governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti. L’ex ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca è arrivato fin qui per ben due volte.
L’ingresso del Parco archeologico nei giorni dell’alluvione
Gli scavi nei giorni dell’alluvione
Nel frattempo, sotto il sole estivo, il fango si è incrostato. «Ora servono archeologi e specialisti per riportare il sito alle condizioni precedenti», spiega il sindaco Papasso. Altri soldi, però, dopo la fine dei lavori di aspirazione del fango (4 aprile), non se ne sono ancora visti.
Anche perché, a Sibari, di finanziamenti ci sarebbe bisogno non solo per ripulire i reperti dal fango. Quello che si vede a occhio nudo è solo una piccola parte dell’antico centro della Magna Grecia, su cui gli studiosi si concentrarono solo a partire da fine anni Sessanta. C’è bisogno di altre campagne di scavi per fare emergere, almeno in parte, una città che nel VI secolo a.C. si estendeva su una superficie di circa cinquecento ettari e contava una popolazione di almeno 100mila abitanti. Perché qui, raccontano tutti, basta sollevare la terra per piantare una melanzana per trovare i resti delle anfore di chi le melanzane invece non le ha mai mangiate.