Lo scandalo delle ambasciate europee spiate dagli Usa non è davvero uno scandalo. O meglio, lo diventa nel momento in cui, come spiega l’analista strategico e professore all’Università Cattolica di Milano Giacomo Goldkorn, «viene resa pubblico». Cioè quando, di fronte ai propri cittadini, presidenti e cancellieri non possono più far finta di nulla. Questo è il punto d’inizio per affrontare la questione, senza moralismi. Una vicenda complessa che comprende dinamiche di potere globali inquadrata in una guerra di intelligence delle grandi potenze: Stati Uniti e Cina.
Uno scandalo che non è uno scandalo, sembrerebbe.
Sì, o meglio: uno scandalo che diventa tale solo quando trapela e diventa pubblico. Eppure non è una novità per nessuno. Già negli anni ’90, dopo la caduta del muro di Berlino, ci si chiedeva che cosa avrebbero fatto i servizi segreti. Chi avrebbero spiato? La risposta si sapeva già allora: i paesi alleati. Non più in campo militare, certo. Soprattutto in campo economico e militare. In questo modo venivano riciclati analisti e agenti. La cosa l’hanno sempre saputa tutti. Però c’è un aspetto importante.
Sarebbe?
Che esiste già una comunicazione tra servizi segreti, e soprattutto una collaborazione tra i Paesi della Nato. Le informazioni scoperte vengono condivise e riferite, in particolare agli Usa. Lo fanno tutti i paesi e, in misura minore, lo fanno gli Usa. Però lo spionaggio reciproco è un’altra cosa, il gioco del “io so che tu sai che io so”. Una cosa che funziona finché rimane nelle stanze del potere. Però, se viene fuori, arriva al centro del dibattito, e i capi di stato devono alzare i toni.
Un gioco delle parti, allora.
In un certo senso sì. È interessante anche perché in mezzo c’è l’accordo per il libero scambio tra Europa e Usa, e le reazioni possono servire anche per alzare la posta. Ma è metà della questione. L’altra è la posizione che i governi devono tenere con i loro cittadini. Per questioni di orgoglio nazionale, anche. Non possono cioè permettere di apparire troppo proni agli Stati Uniti. Sono obbligati a chiedere spiegazioni, anche con toni minacciosi.
E che spiegazioni verranno date?
Quelle che sono state dette finora. Cioè che è normale, “pacifico”, come si dice. Che in realtà non c’è nessuno scandalo. È una forma di comunicazione molto intelligente: non si nega il fatto, ma si nega che sia uno scandalo. Ma il problema non è che si acquisiscono informazioni. Il problema è come questo avviene.
Cioè?
Anche il vice di Obama, Joe Biden, ha detto che avere più informazioni è cosa normale e giusta. E va bene. Però intercettare le ambasciate straniere non è il modo giusto per farlo. È contro la legge, in poche parole. Infrange una delle poche regole di diritto internazionale diplomatico. Non si guarda nella valigia di un ambasciatore, ad esempio. E non si possono mettere dispositivi di spionaggio nelle sedi diplomatiche. Questo è l’inghippo. È una cosa grave.
Ma lo sanno tutti e lo fanno in tanti, immagino.
Esatto. Per questo la comunicazione tende a metterlo in disparte, a farlo scomparire. Prendere informazioni è naturale. Ma sul modo in cui si fa non si dice nulla. E non ci si fa caso. Il mondo dello spionaggio non è amato. Ha pochi amici e molti nemici.
Come la Cina, ad esempio.
La Cina è un capitolo importante. Ha ammesso da poco di avere a disposizione un servizio di intelligence informatico. Il che vuol dire che ce l’ha almeno da una decina di anni. È da tempo che tra Usa e Cina, due potenze che si contendono il mondo, è in atto una campagna di spionaggio molto pesante. Avere notizie riservate permette di anticipare mosse o prevederne altre, in campo economico e industriale (che è dove si gioca la partita per il potere politico). Anche questo, è normale, è pacifico. E non si scandalizza nessuno.
E Snowden è in mezzo a questa partita? Magari al soldo dei cinesi?
No, non credo proprio.
Perché?
È ridicolo. Una cosa del genere (un tradimento, un passaggio di informazioni) non verrebbe mai fuori così. Ogni minuto ci sono centinaia di tentativi di corruzione di funzionari statunitensi da parte dei cinesi. E ogni minuto ce ne sono altrettanti, viceversa, di funzionari cinesi da parte degli americani. In questi casi l’unica regola è il silenzio. La pubblicità è l’ultima cosa che si desidera. A meno che si voglia mandare qualcuno allo sbaraglio e vedere cosa succede.
E non potrebbe essere questo secondo caso?
No, lo escluderei. Piuttosto, il punto è un altro. Che casi come questi, cioè di leak di documenti riservati, rivelazioni alla Snowden o alla Bradley Manning sono sempre più frequenti. Ce n’è almeno uno all’anno ed è sintomatico.
Di cosa?
Di un sistema. Adesso è possibile acquisire una mole di informazioni più grande e in modo molto più semplice, grazie ai sistemi informatici. Però, per lo stesso motivo, è diventato più difficile il controllo delle persone che svolgono questi compiti. Ci sono tanti come Manning e Snowden che per diverse ragioni, come la pazzia, la voglia di notorietà o la ricerca di giustizia sono disposte a questi atti di disclosure. E aumentano sempre di più. Per questo dico che casi simili saranno sempre più frequenti. A rivelare i segreti che sono a loro disposizione.