È tutta colpa del marketing. Uno si aspetta rivelazioni intelligenti dai ricercatori americani, cioè da quelli che studiano nelle più rispettabili Università del mondo, e si ritrova deluso. Alla voce “differenze di genere nell’uso dei social network”, ci si aspetta discettazioni su come il rimorchio online si divida tra autoscatti e status ironico-comici a uso like; analisi rigorosissime sull’ambivalenza delle foto di famiglia: sia come album di ricordo sia come espediente per mostrare corpi tonici dissimulando abilmente l’intento narcisistico, magari includendo i figli o il cane; incontestabili trattati sul modo in cui uomini e donne mentono riguardo a sé stessi, costruendo un’identità socialmente ineccepibile e seducente. Un trattato sull’ansia da notifica o su il retweet compulsivo di complimenti. E invece.
In questo campo scientifico l’inesauribile ricerca del cliché si mescola a quella dell’ovvio. Scienza Daily, in uno studio quantitativo condotto su Pardus, un gioco multiplayer online, ci informa che gli uomini rispondono più velocemente alle richieste di amicizia femminili rispetto a quelle maschili. (Trattenete lo stupore). Non è tutto. Pare che le femmine si organizzino in gruppi. (Ok, ora potete fare: ahhhhhh).
In Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere? Esaminando le differenze nella promozione di sé nei social network (e già il titolo è piuttosto rivelatore), pubblicato da Cyberpsichology, Behavior and Social Networking Journal, impariamo che le donne sono: «consapevoli che il loro prestigio è legato alle opinioni altrui, quindi si scambiano complimenti», e che gli uomini «vogliono essere percepiti come forti, potenti e in posizioni sociali elevate».
In un altro studio condotto dall’Università del Kentucky,Gender Differences in Social Networking, si giunge a sconcertanti e imprevedibili conclusioni: «il mondo della comunicazione sta cambiando, ma ci sono cose che rimangono uguali. Le donne continuano a comunicare meglio e più degli uomini» e «le donne sono più brave a leggere i sentimenti degli uomini». I prossimi studi ci diranno che i gay sono sensibili e che i neri hanno il ritmo nel sangue.
Una ricerca al giorno toglie il ricercatore di torno. Ma solo per sostituirlo con il prossimo ricercatore che ci dirà quanto ci sbagliavamo prima. Ad esempio leggendo lo studio dei ricercatori David Bamman, Jacob Elsenstein e Tyler Schnoebelen, che hanno replicato ricerche precedenti sull’individuazione del genere nei tweet sulla base del lessico. Grafici, tabelle, analisi computazionale, il tutto per scoprire che: «Gli individui con molti amici dello stesso sesso tendono ad usare un linguaggio che è fortemente associato con il loro genere». Sulla base dei risultati dello studio, i ricercatori confrontano le precedenti ricerche nel discorso di genere e rivelano l’inesattezza dei loro predecessori.
Tra i traguardi raggiunti dalla ricerca si vedono perle come: «i più evidenti risultati hanno evidenziato che le donne normalmente tendono ad usare un linguaggio emotivo»; e che «gli emoticon sono marcatori femminili, lo stesso vale per punti esclamativi, e punti interrogativi».
Non che vada meglio per le ricerche internet. In un’infografica realizzata da Internet Service Providers, ci viene detto quel che due anni fa diceva Sheril Sandberg, Cee di Facebook e braccio destro di Mark Zuckerberg: «le donne sono più sociali degli uomini e passano più tempo sui social network». Pare che ci sia una predominanza d’utenza femminile tra Facebook, Pinterest e Twitter, mentre YouTube e Google Plus e Linkedin sono prevalentemente maschili. Tante ricerche per sostenere che alle donne piace parlare di sentimenti, e gli uomini riportano fatti e prediligono YouTube e Linkedin; ovvero sono businessman che guardano la partita mentre la moglie tira la pasta sfoglia lamentandosi con le amiche al telefono. Si parte esaminando i topi e si finisce in una striscia di Altan.
Robert Merton, uno dei più profondi conoscitori della cultura massmediatica del Novecento, ha sentenziato che la sociologia europea in generale non sa di cosa parla, ma affronta temi di grandissima rilevanza; la sociologia americana sa invece benissimo di cosa parla, ma i suoi temi sono in generale piuttosto banali o trascurabili.
Gli studi che sono stati elencati sull’esplorazione della differenza di genere nell’approccio ai social media sembrano un tentativo di dimostrare questo assunto. La corrente americana della sociologia è molto sensibile alla validazione scientifica del dato, perché i suoi committenti non sono (soltanto) circoscrivibili alla comunità intellettuale, ma molto spesso sono riconducibili ai settori del marketing e dello sviluppo strategico delle imprese.
Per questa ragione la conclusione di una ricerca come quella pubblicata un paio di mesi fa da The Journal of Social Media in Society , che recita così: «In generale, queste scoperte suggeriscono che, al di là del medium, entrambi i sessi si confidano di più con le persone che considerano più intime» – può essere considerata interessante dal pubblico che la finanzia.
Se devo comprendere come va il mondo, i pregiudizi non possono che precludere la lucidità della mia intelligenza; ma se devo investire decine o centinaia di migliaia di dollari in una campagna promozionale, voglio essere certo che i miei preconcetti corrispondano davvero a quello che accade dentro e fuori le pagine web. O se penso di essere superiore a simili dubbi, probabilmente non lo sarà il consiglio di amministrazione cui dovrò rendere conto dei soldi che ho speso.
Da anni le indagini sulla differenza di genere nell’approccio ai social media ci raccontano attraverso varianti poco fantasiose che le donne chiacchierano e gli uomini guardano la partita. Oltre 2.000 anni fa già Aristofane tentava di corroborare la convinzione che le donne sono mosse solo dai loro sentimenti mentre solo gli uomini sono in grado di decidere di muovere o non muovere la guerra. È questo il motivo per cui le donne non devono essere ammesse alla guida della città. Per gli uffici marketing il mondo di Aristofane va ancora benissimo, anche se vale la pena di osservare che non sembra aver funzionato in questo modo la strategia di società come Apple o Amazon.
La domanda che comunque ci sembra legittimo porre è se sia giusto che questo mondo vada bene anche per la scienza. Di sicuro non sono i sociologi ad assumere le decisioni politiche ed economiche che stabiliscono quale debba essere l’offerta commerciale (e culturale) rivolta ai due sessi; ma se l’impostazione dei loro piani di ricerca non si propone il compito di esplorare correlazioni tra fenomeni sociali più rilevanti di quelle immaginate dai pregiudizi dei committenti, il loro punto di vista non potrà che finire per giustificarli.
Esistono meccanismi interni ai software di gestione dei social media che tendono a premiare gli scambi e la selezione delle persone che ci assomigliano di più, impedendoci di accedere alla comprensione di qualunque prospettiva differisca dalla nostra; si profila (forse) un tema di delocalizzazione per gli utenti delle piattaforme digitali, che trovano facile interagire con individui lontanissimi dalla loro collocazione geografica più che con i loro vicini di censo economico e sociale differente; e per converso, come mostra Appadurai, si assiste anche alla formazione di immaginari globali che si scontrano con le tradizioni locali dei paesi non Occidentali, accendendo negli individui sogni di lavoro e di crescita lontano dal proprio luogo di nascita – scenari che fino a qualche anno fa non erano neppure concepibili.
Le questioni di differenza di genere si concretizzano solo in questa dialettica globale/locale: per comprenderle occorrerebbe inquadrarle in una prospettiva che sovrasta le abitudini di qualche centinaio o migliaio di studenti incontrati nei college americani e assunti, da ricercatori usciti da quegli stessi college, come un panel rappresentativo della realtà.