È stato presentatore, conduttore, produttore. Inventore e innovatore, imprenditore e maestro di vita. Ha fatto tre edizioni di Sanremo (1980, 1981, 1982) tre festival di Castrocaro (1992, 1993, 2002) un po’ di più di Festivalbar (1983/1987 e 1993). È Claudio Cecchetto: dalla sua mente sono nate due radio (Radio Deejay e Radio Capital, ora in mano al gruppo Espresso). Demiurgo dell’innovazione ha creato personaggi che, come dice lui, «sanno essere numeri uno» ovunque. Il catalogo è questo: in principio fu Sandy Marton (People from Ibiza), poi a ruota Sabrina Salerno, Gerry Scotti, Jovanotti, Amadeus, gli 883. Contati in disordine, ci sono anche Fiorello, Amadeus, Linus e Albertino, Leonardo Pieraccioni, ma anche Daniele Bossari, Tracy Spencer, Luca Laurenti, Francesco Facchinetti. Tutti lanciati da lui. A conti fatti, messi insieme, tutta un’epoca e una generazione che porta il suo nome.
Ora che, finita l’epoca della radio, si è buttato su Internet (con progetti come Faceskin e Memoring) e crede di aver trovato la sua definizione totale: io sono «social», dice. «Da sempre, fin dai tempi della radio, dei villaggi vacanze». Fino ad arrivare a descrivere la sua intera carriera. Anche se non smette di guardare alla televisione, dove – anche lì – ha qualche idea nuova.
La copertina del vinile di Gioca Jouer in inglese e spagnolo
Non dev’essere facile avere idee nuove, ancora oggi.
Io ho sempre in mente programmi nuovi e rivoluzionari. Però bisogna trovare qualcuno che abbia il coraggio di realizzarli. Ecco, di solito questo qualcuno, finora, ho dovuto essere sempre io. Adesso ho in mente un nuovo talent, che è del tutto diverso da quelli fatti finora.
In che senso?
Nel senso che finora i partecipanti si esibivano cantando e venivano giudicati per la loro abilità canora. Nel mio saranno in un cubo trasparente e non si sentirà nulla. Ma verrà giudicata la loro presenza scenica. Perché – e questo è importante –quello che si vede conta dieci volte quello che si sente.
Insomma, fa l’opposto di quello che faceva con la radio, dove invece contava quello che si sentiva e non si vedeva niente.
No, non direi. Alla fine sono due cose diverse, ma soprattutto non è così per un altro motivo: perché tutte le persone che ho lanciato dalla radio avevano una forte presenza scenica. Si sapevano muovere benissimo, apparire, imporsi. Non è un caso che poi si siano rivelati tutti dei numeri uno anche fuori dalla radio. Penso a Gerry Scotti o a Fiorello, per fare due esempi fra tanti, che si sono affermati anche in televisione.
Però si dedica a televisione e internet. Tutto un mondo diverso dalla radio.
Sì, sono cose molto diverse. È difficile metterle a confronto. La radio è un mezzo longevo, non finirà mai. La si ascolta ancora e la si ascolterà ancora. Internet è il nuovo, invece. Nella mia esperienza hanno due mission diverse: la radio ha una portata locale nella vita del Paese, parla del Paese al Paese. Internet è globale, vale in tutto il mondo, è strutturato e pensato per un ambito internazionale. Innovare in radio è una cosa, farlo su internet è un’altra. Qui poi, siamo indietro: non abbiamo la tecnologia, non padroneggiamo la lingua. È come con la musica: ci sono artisti italiani che provano a cantare in inglese per conquistare il pubblico internazionale. Ma poi finisce che gli altri sono più bravi, anche perché è la loro lingua.
E così gli italiani restano indietro.
Ma non è colpa degli italiani. Abbiamo un governo che si riempie la bocca di queste cose ma poi, nei fatti, non è che abbiamo queste grandissime strutture. Io però continuo a pensare che per noi c’è una marcia in più: con la nostra fantasia facciamo la differenza. È una terra fantastica, con un clima fantastico, siamo romantici e sappiamo inventare e creare, cose importanti e leggere. La nostra icona è Leonardo da Vinci.
E la nostra colonna sonora è il Gioca-Jouer. Non è semplice creare le cose leggere.
No, per creare bisogna aver il coraggio di fare cose molto semplici, che non aveva pensato nessuno o che avevano pensato in tanti ma nessuno ci ha provato. Hanno avuto vergogna. Io invece no: con il Gioca-Jouer ho pensato a qualcosa di coinvolgente, come nei villaggi turistici, qualcosa che fa fare le stesse cose alle persone nello stesso momento. È una canzone semplice da imparare (tutti sanno come si fa il gesto di “dormire”), e non impegnativa. È “social”, ecco. Io sono sempre stato legato ai social, anche prima che esistessero. Anche Radio Deejay era una radio “social”.
Claudio Cecchetto ai microfoni di Radio Deejay
Cosa vuol dire?
Non era una radio di servizio, era di aggregazione. Lo spirito era di fare insieme le cose che ci piacevano di più, a metà tra i social e la famiglia. Una gang di bravi ragazzi. E con “bravi ragazzi” intendo persone che volevano bene al pubblico, che traevano energia dal pubblico, che facevano cose per stare con il pubblico. Per questo era social. E anche perché c’era un gran fermento: capitava di incontrare nei corridoi Gerry Scotti che parlava con Jovanotti, che si scambiavano idee e progetti. Ed erano uniti da uno spirito comune,: la voglia di fare, di affermarsi, il senso della fortuna che stavano vivendo.
E Cecchetto come li aiutava? Dov’è che interveniva per lanciarli? Che so, nei testi, nelle idee..
No, direi che più che altro li aiutavo a trovare una direzione. “Cos’è che ti piacerebbe fare?”, e poi si discuteva, sul come, sul modo. Ma il bello era lasciare che lo scoprissero da soli, che si rivelassero a se stessi. Che fossero esuberanti e vitali e lo dimostrassero. Poi un po’ li instradavo. Ma per il resto non posso dire di aver creato nulla. Posso dire di aver permesso che si scoprissero. E che si lanciassero nel mondo.
E poi se ne sono andati per la loro strada.
Giusto così. Io sono un talent scout, non una cambiale. Ma il passato è sempre una cosa importante, anche per chi cerca di superarlo. E allora capita che li senta ancora, dia loro sostegno, mi raccontino i nuovi progetti. A volte per dare un consiglio, ma più spesso per parlarne insieme.
Ora sono personaggi famosi. Ma prima erano degli sconosciuti di provincia. È notevole: nessuno o quasi di loro viene da una grande città.
Sì, sì. È così. Io ho cercato nel tessuto italiano profondo. A radio Deejay non c’era nessuno di Milano, e quelli che lo erano in realtà venivano dalla periferia. Li volevo che venissero da fuori. Ho sempre pensato che “se sei di una metropoli, allora sei già appagato”, e io volevo che invece la metropoli per loro fosse un traguardo, un punto di arrivo, una scommessa, espressione di un sogno. E allora ho trovato anime ed espressioni della provincia italiana, Baldini, ad esempio era della toscana, Fiorello di Augusta, dalla Sicilia, e Lorenzo (Jovanotti, ndr) da Cortona. Amadeus veniva da Ravenna e per mesi ha fatto il pendolare. Si svegliava alle quattro tutti i giorni per prendere il treno, ma a noi aveva detto che aveva un amico che lo ospitava a Milano. Ha fatto bene: non ha voluto creare problemi, non ha chiesto soldi in più. Sapeva che aveva una possibilità e se l’è giocata fino in fondo. Questo è lo spirito giusto. Chi andava avanti aveva un sogno, era quasi una selezione naturale. E a Radio Deejay tutti si assomigliavano per questo.
Lei ha detto che quando morirà vorrà scritto sulla sua lapide “è morto giovane”. Conferma?
Sì. giovane di spirito, certo. Io credo che essere giovani sia un valore. Vuol dire essere freschi, essere senza preconcetti, voler cambiare il mondo. Allora c’è lo scontro generazionale. Ed è giusto che ci sia, è giusto che ci sia resistenza e che i più adulti vogliano fermare l’esuberanza, ma è giusto che i giovani vadano avanti.
L’Italia però è bloccata sui giovani.
Eh, è un paese un po’ vecchiotto. Basta guardare al governo: non sono molti giovani. E il Presidente (della Repubblica): quando ne avremo uno di 50 anni? Gli anziani hanno fatto tanto, hanno sofferto, adesso è il momento dei giovani. Facciamoli crescere, mettiamoci dietro le quinte, lasciamo libero sfogo alle loro energie. È la chiave per l’innovazione.
L’Italia ha bisogno di innovatori.
Sì, io faccio quello che posso, ma gli italiani sono tanti. Ci vorrebbe il diritto all’innovazione in Costituzione. Il mondo va avanti lo stesso, anche se non innoviamo. Ma verrà un momento in cui dovremo innovare, magari non per noi ma gli Usa, che verranno a gestirci. L‘importante è che la popolazione italiana stia bene, anche se io sono un campanilista, non vorrei che si perdesse il cuore italiano. Anzi, magari saremo noi, con il nostro spirito, a contagiare gli Usa!
E come sarà l’Italia del futuro?
Ho molta fiducia nel futuro. Ma mi dispiace di vedere la stampa e i genitori che sono sempre più preoccupati. Non va bene. I genitori dovrebbero tenersela per sé, la preoccupazione. Non dirlo ai figli: piuttosto essere onesti e dire “Sì, le prospettive non sono buone ma io mi fido di te, figlio mio, ce la farai”. La preoccupazione è naturale perché il mondo cambia ed è altrettanto naturale che noi genitori ci preoccupiamo, ma le cose vanno avanti lo stesso, come una mutazione genetica.