C’è chi li definisce “laureifici”, chi fa il paragone con l’estero, chi ne riconosce il potenziale ma intanto storce il naso. Sono gli atenei telematici, in Italia giunti a quota undici (tutti privati) che per l’anno 2012/2013 hanno visto l’iscrizione di oltre trentamila persone. Scontato il profilo dello studente tipo: lavoratori o fuori sede, che non vogliono o non possono permettersi – per mancanza di tempo o di denaro – di spostarsi per seguire lezioni frontali.
Istituiti con il decreto ministeriale del 17 aprile 2003, verranno in questi mesi sottoposti all’analisi del Miur grazie a una commissione sulle “problematiche relative alle università telematiche”. Il dubbio, alimentato da uno studio del 2010 del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, è che nonostante dal punto di vista legale siano equiparati ai tradizionali, la qualità degli apprendimenti non sia adeguata per tutti gli atenei accreditati.
Avere un po’ più di chiarezza servirebbe a sgomberare dal campo alcuni pregiudizi – giustificati o meno– sui candidati che cercano lavoro con in tasca un titolo preso sul web. Che sono, rispetto agli altri, «certamente penalizzati»– racconta Giulia Vitetta, head hunter di Hornor International, società di selezione del personale di livello internazionale. «In Italia questo tipo di formazione viene considerato di serie B».
Luigi Biggeri, presidente del comitato di valutazione universitario dal 1996 al 2011 e dell’Istat dal 2001 al 2009, racconta che le ombre delle telematiche derivano soprattutto dalle perplessità sui «Non basta riprendere in video delle lezioni – continua – Bisogna studiare modelli adeguati».
In effetti nuovi e sempre più efficaci metodi di formazione vengono sperimentati ogni anno in ogni parte del mondo. Un esempio sono i corsi Mooc (Massime Online Open Course) della berlinese iVersity, che arricchisce le video lezioni di quiz e prove intermedie, utili agli studenti per auto valutare il proprio livello di apprendimento.
Un altro buon metodo impiegato dagli atenei più attivi nel campo dell’e-learning per replicare, da casa, quelle attività che tradizionalmente si svolgono nelle aule universitarie, è l’uso di piattaforme on line per i webinar (seminari via web). Eventi live, che permettono di collegarsi in diretta per partecipare a una lezione. Gli studenti possono intervenire durante la presentazione e fare domande via chat o in viva voce, i relatori rispondere in tempo reale e inviare commenti.
Ma la possibilità di accedere – comodamente seduti alla propria scrivania – al sapere dei più prestigiosi atenei del mondo non è l’unica prospettiva affascinante legata alla maturazione dei metodi della formazione a distanza. C’è chi per esempio pensa che questo possa essere un modo per sviluppare il capitale umano del nostro Paese, contrastando l’abbandono universitario (il 18 per cento degli iscritti abbandona dopo il primo anno) e la disoccupazione giovanile. E inoltre favorendo, concretamente, l’incontro tra la domanda di lavoro e l’offerta specifica di alcuni territori.
Nel corso di un convegno dal nome “Scuola, università, lavoro” Luigi Biggeri ha fatto l’esempio di Arezzo, una provincia in cui esistono circa trentamila imprese, ma che non è dotata di un polo universitario in grado di fornire laureati competenti in quei settori specifici, che sono oreficeria, elettronica, abbigliamento e green economy.
Secondo l’ex presidente dell’Istat il pendolarismo – verso il capoluogo toscano o la città di Siena – che già caratterizza la vita degli universitari aretini – ha come naturale conseguenza lo spostamento di quelle competenze in territori già congestionati dal punto di vista dell’offerta di lavoro. Lasciando l’economia aretina priva di quei “cervelli” necessari per dare nuova linfa alle imprese locali.
L’idea di fondo è che l’attivazione di corsi telematici nelle città che non sono dotate di sedi universitarie potrebbe essere un buon metodo per rimodulare il rapporto dei giovani locali con il mondo del lavoro. «Con pochi soldi si potrebbe creare formazione universitaria a distanza, con professori che provengono dai maggiori poli italiani. Si potrebbe, per esempio, organizzare delle lezioni via web in aule messe a disposizione dagli enti locali». «Una bella opportunità – continua – per i ragazzi, che nell’ottanta per cento dei casi, vogliono rimanere a lavorare nel luogo in cui sono cresciuti».