“Fermiamo l’austerità, un’idea pericolosa e sbagliata”

Intervista al docente Mark Blyth

Docente di Economia alla Brown University, Mark Blyth ha un accento scozzese così marcato che è difficile dimenticarsi di lui. Abile conferenziere, presentando in affollate platee il suo nuovo libro Austerity, the history of a dangerous idea (Austerità, la storia di un’idea pericolosa, Oxford University Press, 2013), contesta le teorie che predicano austerità in tempi di recessione. In particolare non risparmia critiche a quelli che reputa i “miti” del pensiero economico dominante in voga oggi tra le élite europee: tagli, diminuzioni di spesa, austerity e le idee di Alesina, economista italiano ad Harvard.

Nel suo libro sostiene che l’austerità non risolve i problemi di debito pubblico. Può spiegare perché?
Il debito pubblico in rapporto al Pil dei Paesi europei è oggi più alto rispetto a 3-4 anni fa. È ovvio quindi che l’austerity ha fallito. I promotori di queste politiche economiche devono iniziare ad ammettere che alla base delle loro teorie c’è una fallacy of composition.

Può spiegare di che si tratta, quando dice «fallacy of composition»?
Si tratta di attribuire una validità universale a un concetto che invece vale soltanto nel particolare. Per esempio: se uno Stato vuole ripulire il proprio bilancio una politica di austerità può funzionare se opera in un’economia chiusa, senza scambi commerciali. Se al contrario, ogni Stato è partner commerciale di un’altro e la spesa dell’uno è il reddito dell’altro, l’austerity è un fallimento assicurato, come nell’Europa di oggi.
Le economie in questione condividono inoltre una valuta che nessuno dei partner può controllare direttamente. In questo contesto, se tutti gli Stati intraprendono insieme una politica di contrazione, il Pil si contrae per tutti e il rapporto debito pubblico/Pil aumenta.
Non soltanto: mi chiedo anche se le politiche di consolidamento fiscale growth-friendly hanno davvero stabilizzato e riportato alla crescita le economie europee. La periferia europea, dove i governi hanno stretto più la cinghia, ha contratto il proprio Pil del 20% nel suo complesso. Questi Paesi si sono scavati una fossa da cui occorreranno 10 anni per uscire.

Ci sono precedenti storici su cui si basano le teorie dell’austerità?
No. I promotori delle politiche di austerità indicano spesso l’esempio della Danimarca e della Svezia degli anni ’80, ma lì si trattava di casi diversi, di economie relativamente piccole, aperte, dove il grosso della ripresa lo hanno fatto le svalutazioni, in un contesto dove la contrattazione collettiva permetteva di tenere sotto controllo l’inflazione delle materie prime.
Non c’è evidenza di economie in recessione, specie se sono reciproci partner commerciali, che riescono allo stesso tempo ad effettuare una contrazione fiscale e a crescere. Se lo scopo è invece tagliare i servizi pubblici queste politiche di austerità espansiva funzionano benissimo.

Cosa ne pensa della gestione della crisi da parte della Bce?
Prima di tutto bisogna individuare quale priorità bisogna affrontare. Quella in Europa più che una crisi di debito pubblico è una crisi bancaria. E per risolvere i nodi della crisi bancaria la Bce ha le mani legate perché da un lato la Bce non ha tutti i poteri della Federal Reserve (Fed), dall’altro il sistema bancario europeo ha dimensioni maggiori di quello americano.
La Bce infatti non può andare dalle banche, prelevarne gli asset tossici, inondarle di liquidità, permettere loro di diminuire il grado di indebitamento (deleveraging), ricapitalizzarle e far ripartire la crescita, in un sistema bancario europeo che ha dimensioni tre volte superiori quello americano in termini di asset footprint e due volte in termini di indebitamento. Il frutto di questo sono delle banche europee “too big to fail” che, laddove si trovassero in profonda crisi, neanche la Germania potrebbe salvare.

E del Fiscal Compact?
I teorici dell’austerità lo prescrivono come l’unica soluzione di buon senso. D’altra parte hanno costruito un’architettura istituzionale che lo giustifica. Dato che i partner commerciali europei condividono la stessa valuta che nessuno controlla, la svalutazione non è più un’opzione, e visto che nessuno stampa moneta, non lo è neanche l’inflazione. L’unica strada rimasta è la deflazione interna implicita nel Fiscal Compact. Che gli stessi teorici evocano come punizione per il sovraindebitamento dei Paesi periferici. Senza ricordare che il sovraindebitamento è l’altra faccia del sovrapprestito, ma ricordare ciò chiamerebbe in causa le banche tedesche, francesi e anche inglesi che hanno sviluppato un enorme leverage finanziario orientato su asset degli stati periferici.

E come ha fatto il concetto di austerità a passare da controsenso a buon senso nel dibattito economico?
Anche grazie ai lavori di Alesina sul consolidamento fiscale espansivo, abbracciati dall’Ue in un Consiglio Ecofin (Consiglio composto dai ministri dell’economia e delle finanze degli stati membri UE) ad aprile 2010, secondo cui i tagli di spesa pubblica incidono da subito sulla crescita.
Tali teorie si basano sull’assunto che, persino in un periodo di acuta recessione, con redditi in caduta libera e aumento della disoccupazione, tutto ciò che interessa agli individui è il debito pubblico.
Ne dovrebbe seguire che quando il governo annuncia una ferma azione per tagliare la spesa pubblica, avendo gli individui aspettative razionali e ipotizzando che il welfare state sarà ridimensionato, essi prevedono che magari tra 10 anni ci saranno meno tasse da pagare. A questo punto, secondo tale teoria, gli individui dovrebbero calcolare e ricalcolare il proprio reddito di lungo periodo, realizzare che hanno più soldi in tasca ora, uscire di casa e andare a far compere da Ikea stimolando la crescita. Magari mentre intorno a loro l’economia crolla. Sembra uno scherzo ma questa è la loro teoria, se non è un controsenso questo?

Lei nel libro propone alcune soluzioni per fronteggiare il debito pubblico e stimolare la ripresa economica, potrebbe rielaborarle?
Primo: smetterla con politiche di austerità. È iI principio di Ippocrate in base a cui «per prima cosa, non nuocere!» Il momento per le riforme strutturali e i tagli di spesa pubblica è il boom economico, non la recessione, in tal modo si compromette la crescita del Pil.
Secondo: affrontare il problema della crisi bancaria. Per esempio con un rimpatrio dei bond nei mercati di appartenenza, prendendo le banche europee sovraindebitate e già cariche di bond governativi, riassicurandoli nuovamente, con una più lunga scadenza e una minore cedola e in presenza di una più potente banca centrale che persegua una leggera inflazione per eroderne così il debito. È la liquidation tax che Stati Uniti e Gran Bretagna adottarono con successo dopo la Seconda guerra mondiale.
Terzo: agire magari preventivamente per il futuro nel settore bancario per evitare carichi di leva finanziaria quali quelli attuali delle banche europee.

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