Grande industria privata: poche idee e troppo capitale

Patrimonio e solidità

Come di consueto, a fine luglio R&S-Mediobanca ha completato le analisi dei grandi gruppi italiani quotati pubblicandole nello storico “volumone” che redige dal 1976. Si tratta di 50 gruppi in totale che racchiudono quello che dovrebbe essere il pivot dello sviluppo italiano. Tra i 50 gruppi ve ne sono 15 che rappresentano la grande manifattura privata che accede ai migliori mercati finanziari, sia italiani che esteri. I dati del 2012, opportunamente riclassificati, mettono in evidenza alcune caratteristiche strutturali sulle quali è bene riflettere.

In primo luogo, non è una novità, la “testa” è piccola: Exor/Fiat (287 mila occupati) è l’unico gruppo che supera i 100 mila dipendenti (Tab 1). Luxottica viene per seconda con una forza lavoro (68.000 persone) che costituisce meno di un quarto di quella Exor. La terza in questa classifica, Pirelli, è a quota 36 mila, ovvero meno di un settimo rispetto al primo. Seguono con circa 20 mila dipendenti Italmobiliare (Pesenti) e Prysmian. La prima osservazione su questi primi cinque complessi riguarda la solidità finanziaria. L’accesso a tutti i mercati dei capitali non ha favorito la struttura patrimoniale; pare esista una relazione inversa tra dimensione del gruppo e solidità, nel senso che man mano che si usa più capitale diminuisce la proporzione del patrimonio netto.

Ragionando in termini finanziari, quindi di patrimonio tangibile (cioè il patrimonio depurato degli attivi immateriali), si scopre che l’unico gruppo veramente solido è quello dell’Italmobiliare dove i debiti finanziari stanno al patrimonio tangibile nel rapporto di 1:1. Degli altri quattro, i primi due per dimensione hanno un patrimonio tangibile addirittura negativo, mentre per i due restanti la dotazione è comunque scarsa. Conclusione: i nostri veri grandi gruppi sono pochi, concentrati e molto fragili. Questo fatto contraddice la vulgata degli economisti poco provveduti i quali si arrabattano intorno alle virtù generate dalla possibilità di accedere ai mercati finanziari internazionali.

Possiamo approfondire l’uso del capitale da parte di questa élite di grandi gruppi privati (Tab 2). Si ripete anche qui un’estrema concentrazione, in pratica in capo al solo gruppo Exor/Fiat: 91,6 miliardi di capitale contro 24,2 miliardi dell’insieme degli altri quattro. Quanto alle origini di tali risorse, Exor assorbe mezzi di terzi per il 76% del totale e mezzi nominalmente degli azionisti (patrimonio) per il residuo 24%. Gli impieghi del capitale riguardano gli attivi industriali (immobilizzi materiali e capitale circolante) per il 18% appena del totale; il resto è finito in attivi finanziari (55% del totale) e immateriali (27%).

Il rapporto tra attivi finanziari e attivi industriali è assai anomalo (i primi sono 3 volte i secondi) e si può spiegare solo con la struttura poco equilibrata delle società automobilistiche. La Chrysler in primo luogo: nei conti redatti secondo i princìpi americani espone un patrimonio netto negativo (deficit) per 7,3 miliardi di dollari, per giunta con uno sbilancio tra attivi e passivi correnti; questi ultimi comprendono 19 miliardi di dollari in scadenza entro 12 mesi per debiti verso fornitori e altri creditori. I debiti finanziari totalizzano 12,6 miliardi di dollari.

Le altrimenti inevitabili tensioni nelle scadenze non possono che essere superate mantenendo una elevata liquidità (senza la quale il gruppo sarebbe insolvente); questa apparente “disponibilità” costituisce pertanto allo stato dei fatti un vero immobilizzo. Stante il “buco patrimoniale” di 7 miliardi già citato, ragionando elementarmente, sarebbe necessaria una ricapitalizzazione di oltre 10 miliardi di dollari per portare il rapporto di indebitamento a 1:1 col patrimonio netto. Negli Stati Uniti un’impresa può tuttavia operare mantenendo un abnorme sbilancio patrimoniale senza essere costretta a portare i libri in tribunale e questo sembra uno dei motivi (forse il più rilevante) per il quale non c’è da sperare che il gruppo Fiat/Chrysler, a fusione avvenuta, resti con la sede in Italia.

A proposito di Chrysler, i dati R&S mettono in evidenza uno spettacolare recupero nell’ “era Fiat”; il fatturato è salito da 29 miliardi di dollari del 2009 (contando anche gli 11 miliardi realizzati dalla “vecchia” Chrysler nel primo semestre) ai 66 miliardi del 2012 con un risultato netto passato dagli 8 miliardi di perdite nei 12 mesi del 2009 a 1,7 miliardi di utili nel 2012; a dire il vero, l’utile del 2012 (come il precedente) è stato ottenuto evitando di far passare per il conto economico 2,9 miliardi di perdite attuariali sui fondi pensionistici che, diversamente, avrebbero segnato di rosso anche l’ultimo consuntivo. La perdita americana sarebbe comunque stata inferiore a quella italiana, di cui non è dato conoscere l’importo a livello consolidato per mancanza dei documenti contabili.

Il bilancio della sola Fiat Group Automobiles S.p.A., dalla quale vengono peraltro le tecnologie motoristiche che hanno rinvigorito il marchio americano, ha chiuso con oltre 1,3 miliardi di euro di perdita. La Fiat fronteggia quindi nel settore auto una situazione che permane critica. Non c’è che da augurarsi che essa riesca a trovare sul mercato americano i mezzi per la sua rinascita, possibilmente senza far perdere al sistema Italia altri pezzi pregiati. Con il “trasloco” della Fiat la nostra manifattura resterebbe appannaggio pressoché esclusivo del Quarto capitalismo, con buona pace di tutti coloro che osannano all’aumento dimensionale delle imprese.

Circa gli altri gruppi occorre rilevare solo che gli attivi industriali non vanno oltre il 50% del capitale complessivo. Da ciò si deduce che l’aumento delle dimensioni, lungi dal favorire le innovazioni e la crescita dell’industria, non fa altro che spostare l’attenzione del management verso i marchingegni finanziari e i “sogni” valutativi che sottostanno all’iscrizione nei bilanci degli attivi immateriali. Beninteso, stante l’attuale governance che premia l’aumento di valore per i soli azionisti e retribuisce i dirigenti sulla base di tale metrica. Volendo attuare una politica che privilegi l’industria, occorre rimediare al cattivo uso delle risorse disponibili: l’esclusione degli attivi finanziari consentirebbe di “liberare” solo nei primi 5 gruppi una massa di capitale pari a oltre 50 miliardi di euro: è questo l’ordine di grandezza minimo del contributo di reindustrializzazione che potrebbe venire dalla ridefinizione del codice di condotta delle grandi imprese italiane. É verosimile che ciò accada? Solo se riusciremo a scrollarci di dosso i modelli anglosassoni: le maggiori multinazionali europee impegnano in attivi industriali il 45% del capitale e quelle nordamericane il 36% appena.

Un’ultima curiosità che emerge dall’osservazione dei dati R&S sui 15 gruppi italiani riguarda il costo unitario del lavoro. Considerando l’elevato grado di internazionalizzazione che distingue (necessariamente) queste imprese, il livello medio del costo del lavoro è un indicatore del grado di delocalizzazione delle attività produttive; le dislocazioni estere vanno valutate in linea di massima positivamente, ma quando la competitività viene dal solo costo del lavoro occorre mettere in conto gli effetti dell’attacco delle imprese dei paesi emergenti, le quali stanno crescendo assai minacciose sugli stessi mercati evoluti.

Ebbene, i livelli più bassi del costo medio del lavoro sono rilevati da Immsi (Piaggio) e Indesit (Merloni) con 28 mila euro per occupato; questi due gruppi esibiscono una produttività pari rispettivamente a 35 e 34 mila euro; il margine è dunque troppo ristretto per consentire una gestione economica, “nonostante” lo spostamento delle produzioni in paesi a bassi salari. Segue la Pirelli con un costo unitario di 32 mila euro che però si confronta con una produttività di 54 mila: valori sempre contenuti, ma con margini meno sacrificati (12,5% del fatturato contro i 4-5% dei due gruppi prima citati). All’opposto, i gruppi che esibiscono il maggior costo unitario del lavoro sono Dalmine del Gruppo Tenaris (75 mila euro), Recordati (66 mila) e Davide Campari (65 mila). Qui la produttività è però alle stelle: ogni dipendente “produce” valore aggiunto, rispettivamente, per 143 mila, 121 mila e 189 mila euro.

In questo confronto sta il vero problema della grande industria italiana: sono pochi (ancora) coloro che puntano sul valore della produzione (sostenuto da innovazioni e fantasia) e troppi (decisamente troppi) coloro che si illudono con la riduzione dei costi del personale. Nel mondo globalizzato di oggi, se si desidera rimanere in un paese industrialmente evoluto, si sopravvive solo puntando sul valore di ciò che si vende; e, come ben sanno i matematici, non esiste la possibilità di avere il massimo risultato con il minimo costo. 

Tab 1 – Primi 15 gruppi manifatturieri quotati a controllo privato

Tab 2 – Origini e usi del capitale

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