Il derby Letta-Renzi e i complessi della sinistra

Cronaca di vent’anni: 1993-2013

Adesso che c’è aria di voto, adesso che il problema del candidato premier diventa un rischio concreto, forse qualcuno nel centrosinistra dovrà farà mente locale sul fatto che gli unici due possibili candidati alla guida della coalizione (se non del partito) sono entrambi ex popolari.

Il che, a mio modo di vedere, dovrebbe essere sconvolgente non solo per il fatto che Enrico Letta e Matteo Renzi vengano da una forza che raramente ha raggiunto percentuali superiori al sei per cento, ma piuttosto per la conseguenza diretta e logica di questo salto di epoca: è come se in questo ideale passaggio di consegne si estinguesse una intera tradizione politica. È come se un ruolo decisivo venisse “appaltato” senza nemmeno una competizione a una tradizione minoritaria, è come se la fine della “competitività” dei candidati che vengono dalla tradizione, diciamo così, del socialismo europeo, certificasse la persistenza inestinguibile di quello che Massimo D’Alema una volta chiamò il complesso dei “figli di un Dio minore”.

Si tratta di un problema che viene da lontano è che è interessante esaminare nel ventennio in cui si è dispiegato. Già nel 1994 la candidatura di Achille Occhetto a premier nacque in modo stranissimo e quasi clandestino. È noto che Il Pds aveva a lungo corteggiato altre ipotesi, tra cui quella di Mariotto Segni, e che solo dopo il fallimento del dialogo con il leader del Patto si risolse a puntare sul suo segretario. Questa candidatura, però, non fu mai esplicitata in modo diretto. La famosa conferenza stampa della «gioiosa macchina da guerra», infatti, era ufficialmente la presentazione della coalizione dei Progressisti, e nessuno quel giorno parlò di un candidato alla presidenza del consiglio.

Per quanto possa sembrare strano gli aspiranti al ruolo erano molti e insospettabili – tanto per fare un esempio – Leoluca Orlando era sicuro che la sua Rete avrebbe preso l’8% e che a Palazzo Chigi ci sarebbe andato lui. L’unica vera indicazione, in quel caso, la diede la televisione. Fu il famoso duello a “Braccio di ferro”, che vide Silvio Berlusconi e Achille Occhetto ospiti di Enrico Mentana – infatti – la prima, vera e unica designazione di un leader. Andò malissimo, come è noto, per Achille Occhetto, che quel duello lo perse, sia sul piano simbolico che su quello politico, arrivando persino a farsi sfottere da Berlusconi sulla ricchezza: «Beato lei, Occhetto, che ha tempo di andare in barca!».

Il complesso dei figli di un Dio minore produsse due anni più tardi, nel 1996, la designazione di Romano Prodi con uno dei più incredibili formulari dalemiani che io ricordi: «Con l’autorità che ci deriva dalla nostra forza, noi professor Prodi le conferiamo l’incarico…». Era il partito, che nella testa di D’Alema, offriva ad un democristiano la premiership, per eludere la pregiudiziale anti-comunista. La offriva, certo: ma era il partito la fonte della legittimità, il vero potere: e quindi, come si capì con il celebre intervento di D’Alema al seminario di Gargonza, subito dopo la vittoria, poteva anche revocarlo. Questa concessione, questa leadership “ottriata” produsse il senso di rivincita del 1998, e la designazione di D’Alema a premier senza elezioni, dopo il famoso Ribaltone.

Nel 2001 il trauma della defenestrazione di Prodi produsse la candidatura di Francesco Rutelli (che oggi appare quasi curiosa, sapendo che Rutelli poi sarebbe finito in un’altra coalizione). Piero Fassino, anche se nessuno lo ricorda, faceva il vicepremier, i due si presentarono all’Italia in treno. E non fu per nulla un passaggio indolore, se è vero che per propiziare questo ticket venne rottamato un socialista come Giuliano Amato, che pure allora era presidente del consiglio uscente: «Finiremo su una sedia a Rutelli!», vaticinò con sarcasmo profetico il dottor Sottile. Eppure era l’ennesima certificazione di una maledizione, quella per cui la sinistra da sola non poteva correre.

Nel 2006 tornò Prodi, come tutti sanno, perché ancora Berlusconi parlava dei comunisti: «Hanno scelto il professore come una maschera – gridava lui su tutti i palchi – ma sotto sotto sono ancora loro, quelli del Pci–Pds–Ds!». Nel 2008 sembrava che l’odissea di un popolo potesse essere chiusa dalla discesa in campo del più post-comunista dei comunisti, Walter Veltroni. Eppure la maledizione degli ex pesava ancora, persino su di lui, malgrado gli innesti di kennedismo: Berlusconi si rifiutó di incontrarlo in tv, al punto che si arrivò ad un grottesco scontro differito in RAI in cui uno entrava e l’altro usciva dallo studio, e Veltroni continuó a definire il Cavaliere, per tutta la campagna elettorale, con l’incredibile perifrasi: «Il leader dello schieramento a noi avverso». L’innominabilità era la certificazione di un disagio: mentre la destra vinceva con il radicalismo, la sinistra perdeva con il moderatismo.

Nel 2012 Pierluigi Bersani sulla carta aveva tutto dalla sua parte, compresa una enorme investitura popolare ottenuta nelle primarie, ma si è rifugiato in una incomprensibile campagna elettorale, tutta in difesa, in cui l’iniziativa è stata completamente lasciata al leader del Pdl. Mai Bersani ha avuto in mano l’agenda, mai ha voluto confrontarsi con il Cavaliere, e il vero paradosso che forse molti non ricordano è che Berlusconi, per via di un veto della Lega, all’epoca non era nemmeno il candidato premier, visto che questo ruolo era stato affidato ad Angelino Alfano. Ancora una volta Berlusconi si è conquistato la leadership di fatto in tv, con una campagna virale. La sua disfatta, incredibilmente, riapre la strada allo sconfitto, Matteo Renzi. E in seconda battuta a Letta, che a Palazzo Chigi c’è già. La sconfitta di Bersani – insomma – sembra riattivare il complesso del figlio di un Dio minore: la sinistra che per venti anni ha combattuto contro la pregiudiziale anticomunista, si è come auto–distrutta attraverso un lungo viaggio costellato di errori. 

Ma questa volta – però – non è vittima di nessuno, se non di se stessa. Prima pensava di avere gli uomini migliori e le idee migliori, ma di non poterli mettere in prima linea per via di una impraticabilità ideologica e di una sorta di maledizione atavica. Adesso si accorge di non avere più né i primi, e né i secondi. Se il Pd non può prendere posizioni chiare sui diritti civili, se non può avere un profilo riformatore e laburista sul piano sociale, se non può dire o non dice più cose “di sinistra”, se non ha nemmeno un uomo che possa gridare che le larghe intese sono uno schifo, infatti, perché mai dovrebbe rivendicare un candidato premier? In nome di quale diversità dovrebbe governare meglio degli ex democristiani cresciuti tra De Gasperi e gli U2? Se la lotta per la premiership diventa una rapace ma scolorita corsa al centro, allora un ex ragazzo dello scudocrociato non può che essere l’uomo giusto per palazzo Chigi. Il che per il centrosinistra non solo è una nemesi, ma anche una follia, la rinuncia alla propria identità.

Provo ad immaginare il trauma di un elettore progressista tipo che deve decidere se votare il cattolico che aveva annunciato il sostegno al decreto di Berlusconi su Eluana Englaro in nome dei valori cattolici, e quello che aveva detto: «Io sto con Marchionne senza se e senza ma». Provo ad immaginare l’elettore democratico tipo che si vede costretto a sceglier tra la seriosità ciellina della messa per le larghe intese che ha celebrato la comunione tra Lupi e Letta, oppure la spregiudicatezza pop con cui Renzi alterna il giubbotto di Fonzie e i pranzi mediatici con Flavio Briatore.

Renzi e Letta fanno benissimo quello che fanno, perché questa è la loro storia, la loro natura, la loro identità. Ma mi chiedo che senso ha questa alternativa per gli elettori che vorrebbero una forza e un leader ragionevolmente di sinistra, come esistono in tutti i paesi d’Europa. Non so cosa rispondere. Ha scritto una volta il grande Stefano Benni: «Ci fu una grande battaglia di uomini e di idee, e alla fine non rimasero né vincitori, né vinti, né idee».  

Twitter: @lucatelese