Il welfare italiano è in crisi. Anzi in doppia crisi: subisce la “grande contrazione” in una condizione di debolezza storica e strutturale. Un’ampia letteratura ne ha sottolineato, da decenni, le distorsioni e le carenze, ammonendo che non è efficace, non è efficiente, non è equo.
La spesa sociale del nostro Paese è più o meno in linea con quella media europea, ma è nettamente squilibrata sulle pensioni e lascia pochissimo spazio agli interventi di contrasto all’esclusione sociale, a favore delle famiglie e per l’accesso all’abitazione. All’interno dei conti previdenziali, poi, esiste un’ampia ed ingiusta forbice che premia una bassa percentuale di pensioni alte e altissime e penalizza una più che consistente fetta di ritirati dal lavoro. A ciò si aggiunge la classica divisione tra insider e outsider, derivata soprattutto dall’inserimento nel mercato occupazionale: i primi, integrati e tutelati (soprattutto dipendenti pubblici e delle grandi imprese); i secondi, penalizzati o esclusi totalmente dal circuito (basti pensare ai precari, ai disoccupati e in generale ai giovani). Sommiamo la tradizionale frattura territoriale italiana, con il Sud in situazione fortemente arretrata rispetto al Centro-Nord (anche nel welfare) e il quadro è completo.
A tutto ciò (e non è poco) si è sovrapposta la crisi economica attuale, che ha portato al drastico ridimensionamento delle risorse dedicate all’assistenza sociale (leggasi tagli più o meno lineari ai vari Fondi per le politiche sociali), in uno scenario di mutamento e aggravamento dei (nuovi) rischi sociali: povertà e precarietà, non autosufficienza, conciliazione vita-lavoro su tutti. Risultato: i Comuni, in prima linea nell’erogazione dei servizi, e le Regioni, protagoniste della programmazione, devono «fare meglio con meno», mettendo a repentaglio nei casi più drammatici perfino l’esistenza di servizi essenziali.
Non c’è lo Stato? Arriva il mercato
Tra le soluzioni all’atavico problema nazionale e alle ripercussioni della crisi economica, c’è chi sostiene lo sviluppo del “secondo” welfare, da affiancare al “primo” (quello pubblico, per intenderci): come dicono Maurizio Ferrera e Franca Maino, un «mix di programmi di protezione e investimenti sociali a finanziamento non pubblico, forniti da una vasta gamma di attori economici e sociali»; non si tratta di «sostituire spesa pubblica con spesa privata, ma di mobilitare risorse aggiuntive per bisogni e aspettative crescenti»; il welfare statale «non viene messo in discussione nella sua funzione redistributiva di base, ma solo integrato dall’esterno laddove vi sono domande non soddisfatte». A finanziare tutto ciò: assicurazioni private, fondi di categoria, imprese, sindacati, fondazioni bancarie, enti filantropici, terzo settore.
Insomma, laddove il pubblico non ce la fa (e si tratta di tante aree scoperte) si possono inserire interventi e risorse del privato. Alcuni esempi tratti dal welfare aziendale, l’ambito forse più idoneo a prestarsi come “secondo”: azioni di work-life-balance, flessibilità di orario, job-sharing familiare, contributi per la previdenza integrativa, borse di studio e rimborsi di spese scolastiche, assicurazioni per servizi sanitari, nidi aziendali e campi estivi, consulenze legali e psicologiche e altro ancora. Il campo è davvero vasto, come i bisogni umani (per di più non soddisfatti).
Pro e contro
Tutto apparentemente giusto e facile. I vantaggi ci sono: fare fronte, in qualche modo, alla crisi del welfare italiano e a quella economica, ampliando la platea dei beneficiari di protezione sociale e “aggiungendo” risposte ai cittadini; mobilitare soggetti economici e risorse innovative, contribuendo anche, perché no, a creare nuova occupazione e nuove imprese; fornire servizi più flessibili, tarati sui veri bisogni, concordati con i destinatari, meno burocratizzati.
Ma non bisogna sottovalutare gli svantaggi di un’estensione sregolata e disordinata del secondo welfare: il rischio concreto di addizionare squilibri a squilibri, differenziando ancor più “chi è dentro” e può giovarsi di un nido aziendale o permettersi un fondo integrativo, e “chi è fuori” (come categoria, come generazione, come territorio) e in tale condizione rimane anche nel secondo welfare; non colmare le carenze storiche delle politiche sociali italiane e anzi lasciare sempre più indietro poveri ed esclusi; spingere il nostro welfare ad un passo indietro (un altro!) nel suo già sbilenco universalismo; abituarsi ancor più di oggi al fatto che “lo stato non ce la fa” e che le risposte possono provenire solo dal mercato: un’operazione culturale di civismo alla rovescia, in cui il pubblico viene sempre più screditato e lasciato a se stesso. Tanto c’è il welfare privato…
Secondo welfare: sì, ma…
Di fronte alla sfida lanciata dal secondo welfare, quindi, quello pubblico non deve abbassare la guardia: anzi, può sfruttare lo stimolo proveniente dal privato per introdurre, finalmente, alcune riforme basilari (come il reddito minimo garantito o i livelli essenziali delle prestazioni sociali), richiamate in ogni convegno e manuale che si rispettino. Deve mantenere alto, per sua natura, il livello di attenzione sull’universalità della protezione sociale ed evitare uno scivoloso percorso di delega al privato (certo, re-integrando le risorse economiche a bilancio – e qui il discorso è complesso: diciamo solo che molti finanziamenti possono essere trovati anche solo “ripulendo” opportunamente alcune misure esistenti). Può fornire e diffondere, a vantaggio di tutti, modelli di intervento efficaci, pescando dalle sue buone pratiche (ebbene sì, ce ne sono). Può, come in parte già fa in ottica di governance, inserire e integrare il secondo welfare nella programmazione sociale nazionale, regionale e nei piani di zona locali, dove questi ancora esistono e resistono.
Sì al secondo welfare, insomma, ma senza rinunciare, almeno, al ruolo di regia, di garanzia, di riequilibrio del pubblico. E non si tratta di volere la botte piena e la moglie ubriaca: solo, un po’ di equità.
*Ugo Carlone, sociologo, è docente a contratto presso l’Università degli Studi di Perugia e funzionario al Consiglio Regionale dell’Umbria. È dottore di ricerca in “Teoria e ricerca sociale e politica”