ISTANBUL – Una lunga notte quella tra sabato 3 e domenica 4 agosto ad Istanbul. Una notte come molte altre nella città e nel quartiere simbolo della resistenza anti-Erdoğan, una di quelle cui ci avevano abituati i telegiornali e i media all’alba del movimento di Gezi Park ma che ora non fanno nemmeno più notizia dato che gli occhi della comunità internazionale e dei media main stream sono fissi altrove (chissà dove). E così pure i già tiepidi rimbrotti europei all’autoritarismo crescente del governo di Erdoğan nei confronti di un dissenso persistente pure si sono dileguati, anzi se n’è persa completamente traccia.
Eppure il bollettino del week end è pesante: 42 arresti, decine di feriti tra cui un bambino di 4 anni colpito alla testa da un proiettile di gomma e ricoverato d’urgenza all’ospedale di Taksim. La polizia ha caricato i manifestanti in diversi punti della centrale Istiklal Caddesi con idranti, lacrimogeni, pallottole di gomma e cariche a colpi di manganello nelle stradine laterali dove la gente fuggiva pensando invano di trovare rifugio. I poliziotti, giovani, imberbi ed esaltati hanno inseguito diversi coetanei o i fuggiaschi impauriti dalle violente cariche fin dentro i palazzi. E quando non sono riusciti ad acciuffarli se la sono presi con gli accidentali avventori di caffé e bar, spauriti turisti, vecchietti seduti tranquillamente a giocare a carte, trascinati per terra e manganellati senza pietà.
Intanto è arrivata anche la sentenza per quanto riguarda il caso “Ergenekon”. Si tratta di un processo che ha coinvolto l’ex capo di stato maggiore dell’esercito di Ankara fino al 2010, generale Ilker Basburg. Lui, così come ad altri ex-generali, è stato condannato all’ergastolo, fra cui anche l’ex capo dell’esercito turco Hursit Tolon. Altre condanne sono arrivate anche per ufficiali, politici e giornalisti. Al centro del processo un presunto progetto di golpe. Dopo la sentenza, sono scoppiati scontri fra manifestanti e polizia.
La realtà turca di questi giorni è fatta di divieti: vietato correre, mangiare kebab, sostare nelle stradine: quando la polizia è in giro meglio serrarsi in casa e non uscire neanche a comprare il pane, sennò si rischia di fare la fine di Berkin Elvan, colpito alla testa da un lacrimogeno sparato dagli agenti mentre usciva a comprare il pane ed ora in coma. Eppure il dispiegamento di forze a Taksim e lungo la Istiklal è apparso subito spropositato rispetto al reale numero di manifestanti. Poche centinaia per la verità. Una manifestazione assolutamente auto-organizzata tanto che nessuna sapeva chi avesse fatto l’appello: la Piattaforma Taksim taceva (forzatamente perché i suoi componenti sono quasi tutti in prigione), diverse altre associazioni che la compongono si sono affrettate a smentire di aver fatto l’appello e su twitter sono circolate voci che la manifestazione era in realtà un’astuta trappola ordita dalla polizia.
A dire il vero, una manifestazione in Piazza Taksim era stata indetta dai genitori delle persone arrestate nelle rivolte e sembrava essere il preludio ad un assembramento di minore entità, dato che pochi hanno rilanciato l’appello in rete. In effetti, all’ora dell’assembramento, ovverso le 19h, in piazza Taksim non c’era nessuno oltre i blindati della polizia. Il passaggio nella piazza è stato bloccato sin dal pomeriggio, il Parco Gezi è stato chiuso ed occupato fisicamente da minacciosi battaglioni antisommossa.
Ma in realtà l’atmosfera era surreale. I poliziotti, con le loro maschere a gas in una mano ed il casco nell’altra, sbadigliavano, spedivano sms alle loro compagne, si guardavano annoiati intorno o si proteggevano dalla calura ancora forte sotto gli ombrelloni rossi da spiaggia piazzati sapientemente sotto l’abbandonato Akm, il Centro culturale Atatürk che oramai sembra un palazzo disastrato d’epoca stalinista ed è piantonato ai quattro angoli da poliziotti con la mitraglietta spianata. Si è vista addirittura una coppia di americani farsi la foto davati ai Toma, i famigerati blindati della polizia con i loro cannoni ad acqua che spruzzano non acqua ma liquido urticante sulle schiene dei malcapitati. Poliziotti sorridenti, vigili disponibili che indicavano gentilmente ai turisti che occorreva circolare e che non si poteva sostare nella piazza, neanche per fare la foto al monumento ad Atatürk.
Insomma un clima rilassato, fin troppo, in attesa che qualcuno (il manifestante) si facesse vedere. Ma nessuno è apparso fino alle 20h. In effetti i manifestanti, poche centinaia, non erano in Piazza Taksim, ma assiepati alcune centinaia di metri più in là, lungo la Istiklal Caddesi. Rumorosi sì ma pochi, troppo pochi per spaventare un tale dispiegamento massiccio di forze. Molto prima che avvenisse alcunché, reparti della polizia erano già nascosti nelle viuzze laterali per stringere in una morsa i manifestanti. Camminando per il centro della strada si potevano intravedere battaglioni in uniformi blu nascosti ovunque, anche dietro le ambulanze, le caffetterie o i ciuffi sporgenti delle bouganville. L’intero quartiere sembrava un’enorme trappola per topi.
Nessuno ha capito il dispiegamento delle forze dell’ordine lungo la centralissima Istiklal Caddesi, fino a poche ore prima preda di un’altra tipo di guerriglia, quella dello shopping. Pareva che la polizia volesse tagliare in più tronconi la strada per spezzettare il corteo che però non c’era. Il tutto quindi è sembrato molto caotico con blindati che correvano all’impazzata avanti e indietro con inversioni improvvise per puntare i cannoni ad acqua sui gruppuscoli di manifestanti che si formavano lungo gli angoli della strade. Gruppi di ragazzini giocavano al gatto e al topo coi poliziotti fuggendo a gambe levate al minimo accenno di carica nei vicoletti laterali infilandosi repentinamente in bar, caffé, supermercati.
Quando però i reparti antisommossa schierati all’ingresso della Istiklal Caddesi hanno ricevuto l’ordine di muoversi verso il centro della Isiklal e di caricare la folla che intanto s’era formata, come spesso accade in questo genere di manifestazioni in Turchia, il numero dei manifestanti è triplicato e quella che doveva sembrare una serata di scaramucce e sfottò tra manifestanti e polizia s’è trasformata nell’ennesima notte di guerriglia con feriti, arrestati e le strade d’Istanbul trasformate in un fumoso campo di battaglia.
Al di là dell’evento in sé e dell’oscuramento vero e proprio da parte dei media internazionali, le proteste vanno avanti da mesi senza sosta. Hanno forse cambiato forma, si sono diluite nel tempo ma continuano, imperterrite, segno che non c’è stata evoluzione della situazione né reale volontà da parte del governo di Erdoğan di fare concessioni. Anzi, da quando i riflettori si sono spenti sulla Turchia, la reazione del governo dell’Akp s’è addirittura inasprita. Approfittando di non avere più su di sé il peso dell’attenzione internazionale o le telecamere di Cnn, Bbc e Al Jazeera alle costole, Erdoğan agisce indisturbato chiudendo il Paese in una morsa ben peggiore di quella in cui aveva rinchiuso la Turchia pre-Gezi.
E così, oltre alla repressione fisica sui manifestanti, s’è allargato anche il bavaglio alla stampa d’opposizione per stroncare quel pò di dissenso che continua a serpeggiare in quegli sparuti organi d’informazione che riescono a sopravvivere alla repressione ed osano addirittura criticare il primo ministro turco. Non è un caso infatti se nelle ultime settimane sono stati licenziati o forzosamente dislocati fior fiori di giornalisti. È il caso di Can Dündar, editorialista di spicco del quotidiano Milliyet, licenziato dopo una censura di tre settimane ai suoi articoli, di Derya Sazak, redattore capo del Millyet rimosso dalla sua posizione e rimpiazzato con un altro suo collega proveniente da Ankara o di Yavuz Baydar, liquidato dal quotidiano Sabah dopo aversi visto censurati i suoi articoli concernenti le proteste di Gezi Park. Baydar tra l’altro aveva denunciato in un editoriale pubblicato sul Nyt i rapporti malsani tra governo e proprietari dei media in Turchia, accusando quest’ultimi di minare i principi basilari della democrazia in Turchia.
Il Sindacato dei giornalisti Turchi (Tgs) dal canto suo aveva già lanciato l’allarme qualche settimana fa: dall’inizio delle proteste legate al Parco Gezi 60 giornalisti sono stati licenziati o sono stati costretti a dimettersi. Ed il bavaglio non sembra fermarsi. Durante le manifestazioni giornalisti ed operatori media sono stati picchiati, arrestati o hanno subito diversi tipi di violenza (110 i casi di violenze, abusi, e licenziamenti segnalati dalla fondazione Fotoğraf Vakfı in 40 giorni). Agghiacciante il caso delle due giornaliste Deya Oktan e Arzu Demir: interpellate e poi violentate nel corso di un blitz della polizia nella redazione dell’agenzia stampa Etkin News Agency (Etha).
I media in Turchia stanno attraversando uno dei periodi più bui della propria storia ed in generale è tutta la società civile a soffrire per il fatto di vivere in uno stato di polizia. La situazione poi della stampa è perfettamente dipinta da una frase pubblicata dal giornalista Dündar sul sito sito web dopo essere stato licenziato, un’affermazione che a noi italiani suona stranamente familiare e richiama tetri ricordi: «Quando il primo Ministro (Erdoğan ndr) disse: «Questo giornalista dovrebbe essere affondato», non si trattava di un desiderio ma di un vero proprio ordine». Un editto bulgaro insomma, anzi turco.
Twitter: @marco_cesario