Il processo di inserimento della finanza nell’industria ha radici ormai decennali e, secondo il professor Patrizio Bianchi, economista industriale, ex direttore della rivista del Mulino L’Industria e oggi assessore regionale emiliano al Lavoro e alla formazione professionale, ha anche un colpevole. O meglio, una serie di colpevoli: «Voglio dire che non si tratta di un fenomeno caduto dal cielo», spiega. Ma di una scelta consapevole di politica economica che si è imposta a livello globale. Il problema è che, di conseguenza, è scomparso «il senso di responsabilità» e che tutte le attività non contemplano più lo sguardo verso il futuro.
FULVIO COLTORTI La fabbrica della crisi, finanziarizzazione e declino
GIORGIO BARBA NAVARETTI L’industria non esiste senza finanza, ed è un bene
LUCIANO GALLINO Se la finanza specula l’industria muore
Il peso della finanza è aumentato davvero nell’industria, come sostiene il libro “La fabbrica della crisi” recensito da Fulvio Coltorti?
C’è qualche dubbio? Andando a riguardare l’andamento dell’economia globale degli ultimi quarant’anni non si può non notare l’aumento straordinario delle attività finanziarie nel mondo delle industrie. Questo è un punto importante. E in questo senso sono d’accordo con l’analisi di Giorgio Salento e Giovanni Masino riportata da Coltorti. C’è da dire anche che si tratta di un fenomeno che non è avvenuto per caso, non è piovuto dal cielo. Fa parte di un disegno di politica economica globale. In questo caso, diciamo, si conosce anche il nome del responsabile.
Cioè?
Tutto comincia dalle politiche di liberalizzazione dei mercati finanziari di Reagan e poi di Bush. Da qui si è creato un aumento delle attività finanziarie enorme: fino a superare, in certi casi, le attività reali. Un mondo di carta senza niente sotto. Solo che, superato un certo limite, si è capito che tutta quella carta doveva essere smaltita. E si è cominciato a farlo dal 2000 in poi, di fronte al rischio (e alla realtà) dell’insolvenza. Insomma, alla base c’è una politica economica che ha basi ideologiche note. Questo mette in difficoltà l’industria e ne provoca il declino. Ma non è la sola conseguenza.
Ce ne sono altre, immagino.
La perdita del senso della responsabilità. Questo è un punto per cui ci sono molti colpevoli tra gli economisti ad esempio, che non sono sempre angeli puri. Dagli anni ’90 va avanti lo smantellamento del rapporto capitalismo-responsabilità, eliminando le forme di controllo del sistema (come voleva appunto l’ideologia di base) sostenuto da fior di studiosi.
La seconda conseguenza?
La perdita del senso del futuro. Cioè, avere un orizzonte accorciato. Gli investimenti reali si fanno con previsioni che abbracciano i quattro, cinque, sei anni. Gli investimenti in ricerca vanno su un arco di tempo più lungo, anche vent’anni. Quelli finanziari, invece, non superano la giornata. Privilegiando questi ultimi si perde il rapporto con il futuro, non si ragiona più sul lungo periodo. E allora la responsabilità sul presente e sul futuro scompare, schiacciata su un’attività che non è né l’una né l’altra cosa, ma solo speculazione. Con il risultato di avere in mano solo un’enorme quantità di carta: le banche hanno venduto i derivati agli stati e così il debito privato è diventato pubblico, ed è finito a gravare sui cittadini e sugli investitori. È diventato fiscale.
Ma ci saranno delle soluzioni, spero.
Occorre prima di tutto riacquistare un orizzonte lungo, perché l’investimento ha bisogno di futuro. Per farlo è cruciale passare per l’Europa: la Germania deve diventare fattore di stabilizzazione, e non di instabilità. Questo serve che i tedeschi lo capiscano, altrimenti non si avranno vie di uscita, visto che i Bric hanno parecchi problemi anche loro.
E poi?
E poi insistere sulle competenze. I giovani economisti pensano che il mondo sia solo una theory of game. Sono cresciuti nelle scuole della de-responsabilizzazione e non hanno altra idea dell’economia se non di questa. Ma non solo loro: anche i manager devono cambiare e pensare agli investimenti, senza essere solo gestori di portafogli finanziari. E i consumi: devono essere re-indirizzati, dando molta più importanza ai beni pubblici, che sono sempre un fattore di stabilità e di responsabilità. I manuali di economia di oggi sostengono che non ci debbano nemmeno essere i beni pubblici. Ecco, questo va cambiato, e presto.
Ma i problemi sono tanti. Le imprese sovratassate, ad esempio, il debito pubblico.
Non c’è dubbio che le imprese siano sovratassate e che occorra più equilibrio. Sul debito, molto fa il pregresso, che è il risultato di una politica precisa che voleva a ogni costo evitare i conflitti sociali. Viene dagli anni ’70, del resto. E allora, di fronte al bivio che imponevano le crisi, cioè se aumentare l’inflazione o aumentare i disoccupati, in Italia si è sempre scelto la prima strada. In Germania no, ma anche perché i disoccupati sarebbero stati gli immigrati italiani, e in Francia sarebbero stati gli immigrati nordafricani. Non c’era il rischio di dividere il paese.
Ma adesso qualcosa si dovrà pur fare.
Certo. Il debito pubblico va disciolto in un arco di tempo più lungo. Almeno 50, come si faceva per i debiti di guerra. L’Iri, ad esempio, è stato fondato in risposta alla crisi del ’29, cioè nel 1933. E gli ultimi debiti sono stati pagati nel 1963, cioè trent’anni dopo. Il paradosso è che la stabilità sarebbe anche maggiore, considerando un periodo di tempo più lungo. E poi si dovrebbe mettere mano al federalismo.
Cioè?
La riforma del Titolo V imperfetta è all’origine di questo enorme pasticcio: soprattutto nel pubblico, le funzioni sono suddivise tra regioni, province, comuni e stato. In questo continuo rimpallarsi di ruoli scompare la responsabilità effettiva: se qualcosa non funziona, tutti sono coinvolti e nessuno è colpevole. E questo non va bene.
Twitter: @darioronzoni1