La caduta del fordismo e l’apertura alla finanza, il cambiamento della natura delle nostre grandi industrie e la difficoltà a entrare nei mercati internazionali. Le sfide del sistema-Italia sono complesse, soprattutto se si entra nell’ambito della struttura delle imprese e – come racconta l’articolo di Fulvio Coltorti, ex direttore dell’Ufficio studi di Mediobanca – si cerca di delineare l’evoluzione dei suoi orientamenti e della sua vocazione. Secondo il professor Giorgio Barba Navaretti, ordinario di economia politica all’Università Statale di Milano, si deve procedere con cautela. Soprattutto nell’atteggiamento da tenere nei confronti della finanziarizzazione delle imprese.
Per quale motivo?
È meglio non avere mai posizioni troppo estreme. In questo caso soprattutto. Nell’evoluzione – complessa – del sistema e del modo di fare impresa la finanza ha avuto un ruolo fondamentale. Ce l’ha ancora. È importante, permette di renderla competitiva sui mercati. Per questo motivo, non va demonizzata in nessun modo. Questa è la premessa.
Chiaro. Ma il peso che assume la finanza non deve andare a scapito della parte produttiva.
Certo che no. Per essere competitive le imprese di oggi devono saper coniugare la finanza di impresa e la capacità di fare industria. Mi riferisco, in questo senso, all’attenzione per gli aspetti tecnici, ingegneristici, la cura per l’economia reale, per gli strumenti e gli impianti. Sono tutti aspetti che vanno armonizzati e che devono lavorare insieme.
Secondo il libro preso in esame da Coltorti andrebbe trovato un accordo tra i lavoratori e i detentori del capitale.
Questa è una proposta che riguarda la questione organizzativa dell’impresa. Io ragionerei più su un altro livello, più ampio: cosa vuol dire fare industria in un’economia avanzata? Coltorti, e il libro di cui parla, individuano l’influenza della finanziarizzazione dell’industria nel peso sempre maggiore che viene dato agli intangibles. Ecco, questo è un punto fondamentale. Se si vuole puntare sulla qualità, se si cerca di dare importanza al marchio e di insistere sulle relazioni, allora investire negli intangibles è necessario. Si tratta di un punto sempre più rilevante. Anche perché non si può cercare di competere su altri livelli, come ad esempio sul basso costo del lavoro. Sono le questioni “immateriali” che permettono alle imprese di restare sul mercato.
E la finanza?
Gli intangibles arrivano a influenzare la struttura finanziaria dell’impresa. Ad esempio, le banche possono concedere prestiti e finanziamenti per l’acquisto degli impianti produttivi, ma non lo farebbero mai per sostenere le R&S, o le strategie per posizionare il marchio. Occorrono nuove vie per gli investimenti, ed è normale che la struttura finanziaria dell’impresa si apra a nuovi strumenti. Il private equity, adesso, ha assunto in questo quadro un ruolo molto diverso da quello di un tempo. Le cose, sottolineo, devono marciare insieme, anche la fabbrica, il lavoro in fabbrica e la sua organizzazione: anche da questo punto di vista si può vedere che siamo già in mondo nuovo, con nuovi modelli. Il fordismo è superato da tempo, non c’è più. Aggiungerei anche una cosa.
Prego.
Sulla delocalizzazione. Anche qui si rischia di semplificare una questione che in realtà è più complessa. Se oggi il mondo dell’industria conosce un’articolazione geografica più variegata non è solo per cercare di abbattere o diminuire il costo del lavoro – elemento comunque che è presente. Ma anche per organizzare l’attività produttiva in modo globale, intrattenendo rapporti con luoghi e paesi, creando legami e sistemi di interazioni diverse. È importante: dire che l’industria “si evolve delocalizzando” è semplicistico, anzi, non realistico. Si sogna, nell’articolo di Coltorti, un mondo industriale che non è più, che non può essere riprodotto. Le imprese nascono, crescono, cambiano.
In un mondo di industrie globalizzata che cosa può fare l’Italia per essere competitiva?
Serve crescere. Rapidamente. Nel nostro paese la produttività (quella media, poi ci sono casi di grandi eccellenze) è molto bassa. Questo perché il sistema del lavoro è inefficiente, in un panorama caratterizzato da piccole imprese, tutte molto laboriose ma che non possono creare una forza sufficiente per reggere la concorrenza. Funzionavano prima, quando si poteva giocare sull’inflazione, ma adesso non più, fanno molta più fatica. Per questo le aggregazioni tra le imprese aumentano.
Cosa può fare la politica?
Dovrebbe occuparsi dei problemi di fondo del sistema-Paese: i costi di produzione elevati; i vincoli burocratici eccessivi; un sistema fiscale confuso e che non aiuta le imprese. Sono questi i punti su cui intervenire. Dal punto di vista della politica industriale occorre muoversi con molta attenzione: servono scelte mirate, ma il rischio di fare errori è molto alto. In generale sarebbe bene rafforzare il manifatturiero, concentrandosi sulle infrastrutture. Meglio agire in questo modo piuttosto che ricorrere a incentivi diretti.
Ma resta da capire una cosa: siamo usciti dalla recessione, come dice il ministro dell’economia Saccomanni, o no?
Sì, il ministro ha ragione. La recessione sta finendo; i segnali ci sono, speriamo che continuino. Il problema dell’Italia è che ha problemi strutturali che diventano pericolosi nell’ambito di una crisi congiunturale. È lì, su questi problemi, che si deve intervenire.