Londra. Questa è una storia anonima. Non perché il suo protagonista voglia rimanere tale, ma perché come lui ce ne sono tanti, anzi – purtroppo – tantissimi. È il racconto dell’ossessione contorta di un amico che in varie forme affligge e condiziona troppi italiani. Questa è la storia delle mutande bianche di un italiano di 27 anni, economista e studente di alcune tra le migliori università d’Europa. È la storia di un italiano che con ostinato orgoglio continua a ripetere che «no, non cambierà mai le mutande comprategli dalla madre dalla mutandara di Paese».
Gli slippini bianchi protagonisti di questa storia sono quelli stretti stretti, quelli così attillati che sotto il bianco asettico lasciano intravedere il nero del pube, quelli in cui alcuni addirittura infilano la canottiera. Sono mutande con l’elastico alto e spesso, al cui centro, lì, proprio lì, sopra il pube, capeggia una scritta argentea. Quasi un grido di battaglia: (in lingua inglese e colore argento soffuso): «Sex».
Cercare di capire perché oggi, 2013, un 27enne italiano indossa senza vergogna slippini del tutto anti-estetici, comperati da una madre distante non decine ma migliaia di chilometri non è un esercizio futile. Perché comprenderlo rappresenta un primo piccolo passo per cominciare a pensare a come uscire dalla situazione che la generazione precedente ha lasciato a quella più giovane, quella del protagonista di questa storia.
Gli slippini bianchi sono infatti uno dei simboli – forse il più odioso – di un’uniformità e di una monotonia intellettuale che è la base di pensiero di una classe dirigente persa e senza idee forti per il futuro prossimo. Perché non è difficile immaginare che uno come il Senatore Razzi, mezzo analfabeta e di una mediocrità opprimente, indossi mutandoni bianchi simbolo di una mentalità familistica, un’incarnazione di valori mai messi in dubbio e una paura congenita del diverso.
Che fare allora? Le femministe degli anni Settanta come Luce Irigaray hanno combattuto la discriminazione incitando le donne a vestirsi in modo sessualmente ambivalente. Forse, viene da pensare, i troppi italiani giovani che ancora indossano slippini bianchi dovrebbero agire sull’esempio del femminismo alla Luce Irigaray, dovrebbero indossare mutande diverse, dovrebbero andare a comperarle da soli. Solo così potrebbe esserci il rifiuto di quest’estetica che lentamente ammazza il paese.
Qualche mese fa il protagonista di questa storia ha incontrato una donna, una vecchia amica mandata quando aveva sedici anni a studiare in Inghilterra; una ragazza che dell’Italia e delle sue abitudini, a parte la glassa superficiale degli stereotipi, ha pochi ricordi. Gli slippini bianchi proprio non le sono piaciuti. Il giorno dopo – lapidaria – ha sentenziato: «Sono un assoluto “no no”. Mamma! Me li ero scordati, era da quando avevo 15 anni che non ne vedevo». Ecco, questo commento sintetizza almeno in parte quello che non va in Italia. Anche per un economista formatosi nelle migliori università d’Europa gli slippini bianchi sono sempre lì, presenti durante troppi gesti quotidiani, ogni giorno, dopo la doccia, prima di vestirsi e nel momento di cominciare una giornata nuova. La routine di una rassegnazione morbosa.
Dopo aver sentito questo conversazione è stato impossibile resistere. «Oh … – dico mentre si gira, con le mutande bianche indosso – non metterti gli slippini con Francesca (nome inventato) la prossima volta». Lui, fermo, non risponde. Insisto: «No davvero! Sono terribili. È ora di sganciare il cordone. Tu che indossi quegli slippini sei uno dei motivi della crisi. Parte tutto da lì. Davvero. Sono serio. Sai quanti burocrati ciccioni romani hanno un culo sudato e rinchiuso in un paio di slippini? Troppi». Silenzio. Continuo deciso a non mollare: «Domani andiamo a comprare delle mutande insieme. Dai!». Risposta: «No, mai». Ride per smorzare la situazione. La scritta «Sex» è li, riflessa dalla luce giallo sporca degli spogliatoi.
Non insisto ma comincio a raccontare di come mia madre è metà americana e di come negli Stati Uniti di slippini, ciabatte per il dopo doccia e canottiere per prevenire possibili raffreddori non interessa niente a nessuno. Il tempo è poco e le attività a cui dedicarsi fin troppe. Racconto anche di mia nonna (italiana) – sposata con un uomo che per tutta la vita ha indossato slippini e canottiera bianca rigorosamente combinati – che ogni volta che va negli Stati Uniti a trovare i miei cugini (suoi nipoti) è allibita dal disordine dei loro armadi, dal menefreghismo nel loro vestire, dalla sporcizia delle loro stanze. «In Italia almeno i giovani non sono così», afferma con fierezza. Racconto anche di mio cugino, che lavora in Silicon Valley, guadagna più di un ricercatore del ministero dell’Economia italiano e in due anni ha creato 4 nuovi posti di lavoro. Le mutande che indossa le sceglie da solo da quando, a sedici anni, la prima ragazzetta con cui è andato a letto lo ha preso in giro per gli slippini comprati dalla madre italiana emigrata negli Stati Uniti. Ma la storia non ottiene risposta.
No, gli slippini non sono la vera causa della crisi e della recessione italiana. Lo è invece l’incapacità di fare un po’ di resistenza. Perché rifiutare di indossarli aiuta a re-immaginare senza paura di sbagliare un’Italia diversa.
Dopo un anno di critiche assidue agli slippini ho convinto il protagonista a seguirmi in un negozio di Oxford Street a Londra, e comprare mutande nuove. È andata male. Dopo venti minuti di titubanze e ripensamenti ha scelto di nuovo degli slippini. Colorati questa volta, ma pur sempre slippini…
Twitter: @albertomucci1