“Mi chiamo Giovanni Fiorin e di mestiere apro locali”

Wine & Food

Se pensate che la ristorazione italiana sia fatta solo di chef (mediatici o meno), di sommelier che vi annoiano e di camerieri (pardon, personale di sala) sostanzialmente infelici, siete fuori strada. Il lavoro più “cool” del momento è quello dello startupper, ruolo non standardizzato. Diciamo che il concetto base è quello di «persona che si occupa dell’apertura dei locali, curandone ogni aspetto, a tempo determinato». Non è il titolare, non resterà lì a vita anzi è suo interesse spostarsi di continuo.

Uno dei più bravi e famosi in Italia si chiama Giovanni Fiorin, classe 1969, veneto di Portogruaro. Ha girato come una trottola sin da giovane, alternando giri del mondo sulle navi da crociera a un’esperienza nei ristoranti di Disneyworld, stage a Londra e un periodo a Bermuda, «fondamentale perché lì ci sono unicamente realtà cinque stelle lusso con una clientela old style che vuole servizi al top». Nel 1998 torna in Italia e gli viene chiesto di occuparsi del rilancio del Caffè Pedrocchi, a Padova. «Non potevo tirarmi indietro, era lavorare per riportare in auge un mito: due anni importanti seguendo tutto, basti dire che prendemmo un regista teatrale per insegnare ai camerieri come muoversi con maggiore eleganza. Diciamo che lì ho capito la mia vocazione, anche se a quel tempo non si parlava ancora di startupper”. Da lì un’esperienza a Soave, per un progetto originale («Una trattoria di campagna, che faceva anche e-commerce) e poi l’approdo a Milano, chez Trussardi, a curare il rivoluzionario Cafè a pianoterra.

Questa è da raccontare, vero Fiorin?
In effetti. Tornato dalle Bermuda, ho chiamato un amico come Savio Bina che era sommelier da Cracco e lui mi ha consigliato di parlare con Andrea Berton, presentato dallo stesso Cracco alla famiglia Trussardi, intenzionata ad aprire il ristorante nella sua sede di Piazza della Scala. Detto, fatto: ho iniziato la mia avventura milanese.

Dopo Cafè Trussardi, si sta occupando di altri due locali di successo: Pisacco e Dry. Concetti diversi ma lo stesso “think thank” enogastronomico…
Esatto. Pisacco è un bistrot contemporaneo, Dry è un locale per cocktail e pizzeria al tempo stesso. Nel pensatoio (in realtà, una società di cui fanno parte Fiorin, lo chef Berton, l’architetto Diego Rigatti e l’architetto Tiziano Vudafieri, ndr) sono quello “sul campo” per vocazione ed esperienza. E sono pronto per il terzo locale…

Per lei cosa vuol dire “startupper” nella ristorazione?
È un mestiere particolare, che puoi fare solo dopo aver acquisito una professionalità a 360°. Crescendo nei locali, capisci cosa è fondamentale e cosa è accessorio: non devi mai sentirti arrivato e avere sempre la visione del prossimo giro. Il mio resta un caso particolare perché oltre a svolgere questo ruolo “sul campo” – oggi a Dry – partecipo sempre al concept di partenza. L’idea di unire la tradizione della pizza al mondo dei cocktail è mia, tanto per fare un esempio.

Il concept va rispettato alla lettera o si può aggiustare strada facendo?
Per me il 70% dell’idea non si cambia, il 30% si può migliorare dopo aver aperto. Per questo bisogna pensare bene e molto in partenza: per Pisacco abbiamo ragionato sei-sette mesi, per Dry sicuramente meno in quanto avevamo già fatto esperienza. Al di là del business plan, il punto di partenza è la personalità del locale: se manca quella, è un errore di base. Resto sempre perplesso quando trovo imprenditori con la voglia di aprire un ristorante che cambiano idea ogni settimana. Non ha senso.

Sembra che tutti oggi sognino di aprire locali.
Vero. Dimenticano però un concetto fondamentale: sono imprese vere, con le stesse problematiche di una fabbrica di divani. A meno che uno non lo faccia per hobby e se ne possa fregare del risultato: un po’ come le squadre di calcio che solo ultimamente stanno abbandonando il concetto della perdita costante. Con la ristorazione, è possibile sia guadagnare bene che perdere tantissimo: quindi bisogna essere molto attenti.

Questo è uno dei compiti dello startupper?
Esattamente. Un esempio per il costo della materia prima: insieme a una controller, valutiamo giornalmente la situazione così io giorno dopo giorno, so quale è il food cost e lo rendo disponibile – insieme a molti altri dati – ai miei soci. So per certo che molti chef, anche famosi, non guardano o non fanno finta di guardare il food cost ed ecco spiegato – in buona parte – il conto economico sballato di molti locali. Idem per le fatture: non si paga il fornitore se non dopo quattro controlli, di cui due miei.

Chi si ferma è perduto…
Diciamo che se un’impresa ha tanti soldi, può navigare senza tensioni. Chi invece – come noi – sceglie una politica aggressiva, ne fa girar pochi al meglio. Puntando alla qualità del locale senza perderli. Per questo il food cost è fondamentale insieme al servizio: visto che incide per un 30% sulle spese generali, non può essere scarso. Al Dry, comunque una pizzeria, ogni giorno si fanno due briefing sul tema.

A proposito, lo startupper ha il compito di trovare personale.
Non ci sono grossi problemi per la cucina ma la sala è un casino. Trovare persone in gamba resta difficile: da noi il servizio a tavola è considerato un ripiego, malgrado lo stipendio sia superiore a quello di tanti altri lavori. Servire bene per me è qualcosa di gratificante, invece per molti è un sacrificio.

Per i giovani che vogliono fare il suo lavoro consiglia tante esperienze veloci o poche ma intense?
Sono due soluzioni diverse ma entrambe valide per la formazione professionale. Dipende dal carattere, penso. In ogni caso, chi gira nel mondo ha una marcia in più, soprattutto nel nostro settore. E non solo per le lingue, proprio per il fatto che lavora in locali di ogni genere. I posti? Beh, Londra è fondamentale ma bisogna fare un salto nelle metropoli orientali dove bar e ristoranti sono in pieno sviluppo. Guarda caso, il nostro barman Guglielmo Miriello era a Shanghai.

Chiudiamo con la classica lamentela sulle tasse alte per i locali?
A me non fanno arrabbiare le tasse. Ovvio che le vorrei più basse ma in un business plan le calcoli e quindi non sono una sorpresa. Semmai trovo delirante il costo – che esiste solo da noi – per consulenti del lavoro, commercialisti, specialisti e similari: la burocrazia oltre che i soldi ruba ore su ore che potrebbero essere impiegate meglio. Ci sono passaggi e obblighi fuori dal tempo. Almeno questi che spariscano.

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