Provate a calarvi nel dramma di un povero e bistrattato elettore di centrosinistra, non un guerrigliero tupamaro, non un nostalgico del Pci: uno qualsiasi di quelli che non vuole il paradiso in terra o il socialismo reale, ma che si accontenterebbe del modello bipolare che funziona in tutto il mondo: se vince la sinistra governa la sinistra, se vince la destra governa la destra.
Questo povero elettore negli ultimi mesi si sente sempre più combattuto, tra opzioni politiche che sono sempre più lontane dalla sua identità: magari – negli ultimi giorni – aveva appena deciso, in omaggio ad una stingente logica meno-peggista, che Enrico Letta forse potrebbe essere meglio di Matteo Renzi, e che Giorgio Napolitano è sempre meglio del caos, perché é l’unico che abbia una linea politica, ed è uno dei pochi sicuramente disinteressato sul piano delle ambizioni personali. Poi una sera d’estate, il nostro malcapitato elettore accende la tv e assiste allo show del presidente del consiglio a Rimini, si ritrova davanti Letta e Napolitano in formato stereo davanti al Meeting, avverte la forza simbolica di questo messaggio, e ci ripensa subito. È una coreografia perfetta, quella del Meeting, una sceneggiatura che pare scritta ad Hollywood. Ma è anche una regia che serve a rappresentante un unico punto politico del copione: allestire un kolossal, celebrativo delle larghe intese. Letta e Napolitano sono di fatto gli unici veri protagonisti di una settimana di incontri.
Non è certo un caso che, proprio a Rimini, due anni fa, dal palco del Meeting, Napolitano abbia tracciato il possibile percorso di una maggioranza che unisse in parlamento gli uomini del centrodestra e del centrosinistra intorno ad un governo tecnico. Ed oggi è ancora una volta a Rimini che il governissimo torna a trovare la sua fonte di legittimità, la sua rappresentazione più autentica, la sua espressione più sincera.
C’è una sorta di sorprendente effetto-disvelamento che nel discorso di Letta a Rimini suona un po’ paradossale, per il nostro malcapitato elettore democratico. Il presidente del consiglio passa dal noto adagio, «Questo non è il governo che volevamo», ad una esaltazione quasi entusiasta dell’accordo: «L’Italia sa che può uscire dalla crisi – avverte Letta – e nessuno interrompa questo percorso di speranza che abbiamo cominciato». Avete letto bene: «Percorso di speranza». Il che vuol dire che le larghe intese, nella declinazione illustrata per la platea ciellina passano repentinamente dallo stato di una dura e amarissima necessità, a una sorta di virtuosa ed entusiasmante stagione storica. E se Letta diventa l’idolo del Meeting, il poliziotto “buono”, Napolitano si cala nei panni di quello “cattivo”, il poliziotto severissimo che spiega la necessità della grande coalizione calandola nel contesto giustificativo della crisi europea.
Il ministro Maurizio Lupi – dal canto suo – si trasforma in un sorridente cerimoniere, che accompagna i due superpoliziotti come il commissario burbero dei telefilm americani, quello che lavora dietro le quinte per il buon esito dell’inchiesta. In questo copione, la gag grottesca dell’ex beniamino delle folle cielline caduto in disgrazia, l’ex presidente della Lombardia Roberto Formigoni, a cui con spietatezza draconiana non è stata concessa nemmeno una tavola rotonda in terza serata, rende bene l’idea di come il disegno politico degli organizzatori del Meeting sia una partitura che viene eseguita con rigore implacabile.
Insomma, il povero elettore democratico bipolare quando sente Letta usare metafore ginecologico–pastorali del tipo «Bisogna far vincere la forza fecondativa dell’incontro, sempre», capisce che a Rimini non è andato in onda un discorso di occasione, ma quello che un frammento trasversale della classe dirigente italiana, postcomunista e postdemocristiana, immagina da tempo come la possibile via di uscita dalla crisi: tagliare le ali a destra e a sinistra, ricostruire un partitone centrista che va dal ministro Maurizio Lupi a Francesco Boccia, marginalizzare l’anomalia berlusconiana, ma anche il sogno riformista della sinistra socialista europea, e – ovviamente – governare per mezzo secolo.
Se poi il povero e bistrattato elettore democratico di incazza, si ritrova ad ascoltare Matreo Renzi come se fosse Che Guevara, e finisce per riampiangere persino l’Unione che andava da Clemente Mastella a Oliviero Diliberto come una forma alta di espressione della civiltà politica occidentale, non azzardatevi a dirgli che sbaglia: perché purtroppo la vera lezione del Meeting, quest’anno, è che malgrado le migliori intenzioni, al meno-peggio non c’è mai fine.
Twitter: @LucaTelese