Lo stallo di tensione in Egitto tra il governo dei militari e i manifestanti è scoppiato con violenza questa settimana: le ultime notizie parlano di 600 persone uccise dai soldati al Cairo, nei dintorni di piazza Tahrir. La mia collega Olga Khazan ha scritto che, in termini di violenza stato-contro-manifestanti, la repressione potrebbe provocare il più grande numero di morti dai tempi del massacro in piazza Tienanmen, in Cina, nel giugno 1989. Su questo punto, del resto, sono già usciti articoli che hanno definito la violenza al Cairo come “la Piazza Tienanmen d’Egitto”.
Il paragone non è stato ignorato in Cina, dove i media di stato hanno trasmesso immagini a ogni ora dall’Egitto, fin da quando si è cominciato a sparare. In rete, se questo riassunto di Offbeat China è di qualche attendibilità, le reazioni sono state varie: dall’appoggio per i manifestanti al sollievo per il fatto che la Cina non debba affrontare un’instabilità del genere. Uno ha anche scritto: “Se questo avvenisse in Cina, sarebbe visto come un’enorme violazione dei diritti umani e la Cina verrebbe sanzionata. Ora, visto che succede in Egitto, è solo un intoppo sulla via per la democrazia. Eh no!”.
Ha ragione anche lui. Subito dopo che Deng Xiaoping ordinò all’esercito di disperdere le proteste, la Cina venne sottoposta a una forte condanna internazionale, con sanzioni economiche e isolamento diplomatico. La cosa costò a Pechino anche la possibilità di ospitare le Olimpiadi estive del 2000. Al contrario, mentre i capi del mondo hanno a stretto giro condannato i generali egiziani, non c’è stato nessuno che abbia parlato di una punzione simile a quella subita dalla Cina. Del resto, non c’è nessun motivo per credere che gli Stati Uniti intendano sospendere la fornitura di aiuti al paese, che è di circa 1.3 miliardi di dollari.
Eppure, date le ovvie somiglianze tra Tienanmen e Tahrir, cosa spiega la diversità di reazione nei due casi? Ecco alcune spiegazioni.
La rivolta di Tienanmen scoppiò all’improvviso, mentre l’Egitto la covava da almeno due anni
Anche se era dalla metà degli anni ’80 che diverse città della Cina avevano tentato delle proteste sparse contro il governo, la causa dello scontro del 1989 fu la morte improvvisa, in Aprile, di Hu Yaobang, un politico riformista molto amato. Il cordoglio pubblico per Hu si trasformò in un movimento prolungato contro il dominio del Partito, con studenti e lavoratori urbani che, allo stesso modo, chiedevano liberalizzazioni politiche. Alla fine, nella notte del 4 giugno, Deng Xiaoping decise di utilizzare l’esercito contro le proteste e in poco tempo il Paese tornò alla normalità. La crisi durò circa sei settimane.
L’Egitto, invece, vive in una situazione di instabilità da quando Hosni Mubarak si è dimesso da presidente, cioè dal febbraio 2011. L’elezione di Mohamed Morsi – salutata in tutto il mondo come un grande successo democratico – ha solo esacerbato le divisioni politiche già esistenti nel paese e, infine, ha costretto l’esercito egiziano a destituirlo in un colpo militare.
Le uccisioni di questa settimana rappresentano i peggiori episodi di violenza nell’Egitto dell’era post Mubarak, e rinforzano la sensazione che il paese sia fondamentalmente instabile: incidenti del genere non sono sorprendenti.
I manifestanti cinesi suscitavano più comprensione rispetto a quelli egiziani
Non tutti i cinesi che si radunarono in piazza Tienanmen volevano rovesciare il Partito Comunista. Molti, in realtà, cercavano riforme più modeste, come ad esempio la possibilità di scegliere una professione. Ma gli occidentali idealizzarono i manifestanti e li figurarono come rivoluzionari liberal-democratici, un’idea che poté solo crescere quando nelle proteste fu costruita nella piazza una copia, abbastanza grezza, della Statua della Libertà. A osservatori più attenti i giovani cinesi non rappresentavano una minaccia esistenziale per lo stato e, come scrive Sam Crane, la repressione fu «un esempio di un regime fortemente radicato che impiegava solo una minima parte della sua capacità repressiva per far finire una protesta limitata che, di base, non metteva in dubbio i fondamenti del potere statale».
Lo sdegno per Tienanmen non riguardava solo il numero delle persone uccise: dipendeva anche dalla convinzione che la tragedia fosse evitabile. Una convinzione che ebbe anche l’allora premier cinese Zhao Ziyang, la cui opposizione all’impiego della forza provocò la sua espulsione e poi gli arresti domiciliari.
Le proteste egiziane, invece, sono in sostegno di un politico, Mohamed Morsi, che non somiglia in nessun modo a un Thomas Jefferson. E nonostante avesse ricevuto un sostegno limitato dagli elettori egiziani, Morsi ha agito come se possedesse un mandato pieno, per smantellare l’apparato democratico e rafforzare la sua presa del potere. La base di sostegno a Morsi contò anche sulla popolazione islamica del paese, le cui vedute poco liberali su politica e religione mettevano fuori gioco i simpatizzanti per l’Occidente. Aldilà dei loro altri meriti, i manifestanti per Morsi stanno protestando per rimettere al suo posto un presidente che, in primo luogo, non è riuscito a governare con efficacia. I manifestanti cinesi, al contrario, non avevano questa macchia: non erano legati a nessun regime fallimentare. […]
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*Tratto da The Atlantic, pubblicato il 17 agosto 2013