Quel vago sospetto che lo spread sia solo una patacca

Il primato della politica sull’economia

È vero, c’è stato il bazooka di Mario Draghi. Ma è sensato dire che lo spread è sceso al suo minimo storico negli ultimi due anni perché noi italiani siamo diventati più bravi e più virtuosi? Questo pensiero sarebbe bello e confortante, ma non è sicuramente vero.

Non ho specifiche competenze economiche per provare il contrario, ma vorrei mettere in discussione questo postulato con la semplice elencazione degli elementi che solo due anni fa ci avevano indicato come decisivi per spiegare l’impennata dei nostri tassi: ci avevano detto, cioè, che lo spread dipendeva dalla salute del nostro sistema, dallo stato virtuoso dei principali indicatori economici, dall’appetibilità del sistema-paese per gli investitori stranieri.

Bene, se così fosse quali sarebbero i miglioramenti di questi indicatori? Il debito pubblico italiano è purtroppo arrivato a toccare il suo record. Il nostro prodotto interno lordo sta calando senza tregua. Il rapporto debito-Pil è ovviamente peggiorato. La spesa pubblica, malgrado tutto è aumentata. La pressione fiscale è oggi al suo massimo storico. Le banche, principali acquirenti dei nostri titoli, sono declassate e in crisi. Le due principali agenzie di rating hanno declassato anche l’Italia. Per non parlare della situazione nella cosiddetta eurozona: il Portogallo va a rotoli, la Spagna boccheggia e la Grecia continua a licenziare dipendenti pubblici, ma anche a non riuscire ad assolvere le condizioni della troika. Perché lo spread, che ormai è un oracolo, una sorta di entità mitologica, perché mai dovrebbe calare?

Siamo davvero sicuri, dunque, che questo risultato sia figlio del rigore, dei numeri e degli indicatori economici? Possibile. Ma è possibile anche che ci siano di mezzo altri fattori, meno geometricamente cristallini, come ad esempio le elezioni tedesche. Lo spread è stato, in questi ultimi due anni di picchi, la principale modalità di finanziamento (a spese nostre) del debito pubblico tedesco.

È stato – anche se è scomodo dirlo – uno dei più efficaci strumenti di colonialismo economico nell’eurozona, la leva che affermava il primato tedesco, ma anche il segnale più smaccato e difficilmente sostenibile di questa egemonia. Lo è stato al punto che lo spread è salito anche quando i numeri dei nostri indici erano migliori di oggi. Adesso che la Germania va alle urne, però, la crescita dello spread diventerebbe anche un elemento di instabilità interna, un fattore destabilizzante in vista del voto. Non ci sono ovviamente prove, che possano dimostrarlo, se non che questo calo non può essere prodotto da nessuno dei nostri indicatori economici.

Quindi, visto che siamo nel campo della mistica, più che il frutto di una stagione virtuosa (che virtuosa non è) il calo dello spread potrebbe benissimo essere figlio di una tregua elettorale o di qualche fattore accidentale di cui noi non abbiamo percezione né contezza. Lo spread potrebbe essere (anche) figlio di fattori geopolitici, di meccanismi di lobby e di cartello, e non (solo) di automatismi economici: ma se fosse così dovremmo rassegnarci all’idea che questo calo più che farci gioire, e dovrebbe invece costringerci a pensare. Se lo spread non è una vendetta degli dei, non è figlio di un algoritmo intellegibile, e non è nemmeno un indicatore di virtù, potrebbe benissimo essere una patacca. 
 

Twitter: @lucatelese