Nella cultura giapponese ogni cosa ha un’anima. Anche un microfono, una sedia o un ago, che prima di buttare le sarte ringraziano per il lavoro svolto. «Non c’è distinzione tra gli umani e le altre cose. Così non abbiamo esitato a creare dei robot di aspetto simile a uomini e donne», racconta a The Global Mail Hiroshi Ishiguro “padre” della bella Geminoid F. Robot sempre più simili agli esseri umani, anche nell’aspetto. Un’ulteriore passo avanti che potrebbe rendere i robot sempre più simili a noi è la “pelle elettronica” sviluppata dai ricercatori dell’università di Berkeley che tra le diverse applicazioni potrebbe essere usata per conferirgli un senso del tatto più preciso. Ma non solo.
La “e-skin” come è stata ribattezzata dai ricercatori potrebbe essere usata per ridare sensibilità alle persone portatrici di protesi, per i display degli smartphone, i cruscotti delle auto o appunto dare ai robot il senso del tatto. Un altro esempio ancora potrebbe essere l’utilizzo come carta da parati interattiva come viene spiegato nel lavoro pubblicato su Nature Materials o come immagina il co-autore dello studio Chuan Wang «come una fascia elettronica che applicata al braccio monitorizza in continuo pressione sanguigna e frequenza cardiaca».
Si tratta di uno strato sottile di plastica, flessibile, con integrata una rete di sensori in grado di avvolgere anche superfici irregolari. Il primo esempio di pelle elettronica interattiva in grado di rispondere a stimoli di pressione e tocco, e non solo quindi di mappare e quantificare la pressione applicata ma anche di fornire una risposta visiva istantanea attraverso un display a diodi integrato. La matrice si illumina al tocco, tanto di più quanto maggiore è la pressione e basta anche solo una foglia o il vento per attivarla. Per realizzarla i ricercatori guidati da Ali Javey, professore di ingegneria elettronica e computer science presso l’Università di Berkeley in California, hanno steso un foglio polimerico su uno strato di silicio e solo quando la plastica si è indurita hanno stratificato i diversi circuiti elettronici su di essa. Una volta rimosso il film di plastica dal silicio, hanno ottenuto la e-skin con integrata la rete di sensori. Le dimensioni del prototipo realizzato da Javey e colleghi sono di 16×16 pixel, in ognuno dei quali è inserito un un transistor, un led organico e un sensore di pressione.
«Non si tratta di un semplice dispositivo ma di un vero e proprio sistema», ha continuato Javey che sostiene che la vera novità del loro studio non sia tanto la costruzione di sensori integrati quanto il display interattivo in grado di “sentire” e rispondere a stimoli come tatto e pressione. Ma non finisce qui, ora i ricercatori stanno continuando a lavorare per rendere la “pelle” ancora più sensibile e realistica, in grado di rispondere anche a cambiamenti di temperatura e di luce. A quel punto se un robot come quelli ideati da Hiroshi Ishiguro fosse ricoperto da una pelle elettronica di questo tipo, sarebbe ancora più vicino agli esseri umani. Soprattutto per i giapponesi.
Do Robots Have Souls? from Digital Global Mail Limited on Vimeo.
«Quando Geminoid F – per esempio – è stata messa alla reception di un ufficio e salutava i visitatori, solo il 20 % di essi si sono accorti che c’era qualcosa di strano in lei», racconta Aubrey Belford su The Global Mail. Lo scorso anno poi, è stata ingaggiata come “attrice” in spettacoli teatrali e ha debuttato in un adattamento delle Tre sorelle di Cechov, ma sempre nel ruolo di un androide. In Giappone la ricerca in questo settore è per lo più focalizzata nel realizzare robot simili agli uomini che devono saperli aiutare nelle faccende quotidiane e fargli compagnia. Qui il robot è da sempre visto come un amico, con cui convivere, che può aiutarci. Al contrario della cultura occidentale, dove gli androidi sono progettati per lavorare o andare in guerra al posto nostro. Così se i giapponesi pensano a progettare macchine che possano aiutare anziani e bambini, negli Usa si progettano droni da mandare in guerra. La robotica americana ha per lo più fini militari e i robot sono una sorta di “schiavi”. Non a caso, secondo il giornalista australiano, mentre la cultura americana è permeata dall’idea e la paura che le macchine possano ribellarsi contro i loro “padroni” – come raccontano nei film 2001: Odissea nello spazio e Terminator – in Giappone i robot da sempre hanno un aspetto più amichevole. Per esempio «Astro Boy – un manga creato nel 1952, solo sette anni dopo l’esplosione atomica di Hiroshima e Nagasaki – era un bambino robot alimentato a energia nucleare che pensava e provava sentimenti».
Non solo macchine in grado di ribellarsi contro l’umanità, ma anche capaci di rubarci il lavoro. Un recente articolo di Bruce Sterling pubblicato su la Repubblica ricorda R.U.R. (Rossumovi univerzální roboti ovvero “I robot universali di Rossum”) l’opera teatrale scritta da Karel Capek nel 1920 a Praga. In quest’opera i robot – progettati dall’imprenditore Rossum per sostituire gli uomini che lavorano nelle industrie – prima portano via il lavoro agli operai sostituendosi a essi e poi – ancora una volta, come da cultura occidentale – si ribellano e spazzano via la razza umana. Nel 2013 la “paura” che le macchine possano in parte sostituirsi a noi in alcuni lavori non è poi così fantascientifica.
«Circa 1,4 milioni di robot nel mondo sono già impiegati nel settore auto ed elettronica», continua Maurizio Ricci nello speciale de la Repubblica . «Baxter costa solo 22 mila dollari – l’equivalente di un anno di salario – pesa 75 chili, ed è abbastanza lento e misurato nei movimenti da non rappresentare un pericolo fisico: potrebbe essere usato per sostituire molti degli attuali bracci meccanici usati ora nell’industria». I Frida della Abb, invece, sono utilizzati dalla Foxconn, l’azienda che assembla i telefonini Apple, che si prepara a installarne un milione. Jeeves PR2, “nato” in Usa, è capace di riordinare la biancheria e oggetti sparsi riponendoli al loro posto o di aprire una birra: utile non solo a casa ma anche come portantino in ospedale. Wakamaru della Mitsubishi sta rifinendo invece in prototipo per aiutare bambini e anziani nella faccende di casa. Come “Sopravvivere ai robot”, come titola lo speciale de la Repubblica, lo spiegano due professori dell’Università di Harvard e il Massachusetts Institute of Technology (Mit), Richard Murnane e Frank Levy rispettivamente, in uno studio chiamato “Dancing with Robots”.
Che li si consideri nemici o meno, non è da sottovalutare quello che i robot possono fare per noi. Possono raggiungere e operare in luoghi dove noi non possiamo andare, come nelle miniere in seguito a incidenti, piattaforme petrolifere e centrali nucleari. Oppure possono esplorare lo spazio per noi, come un occhio esterno in grado di arrivare in terreni inospitali. Per Osamu Kozaki – per tornare al Giappone e all’articolo del The Global Mail – possono anche simulare una fidanzata. Lui – come altri centinaia di migliaia di giapponesi – ha comprato Love plus, il gioco della Nintendo che simula l’amore con un’adolescente, e Rinko Kobayakawa – che da oltre tre anni è la sua fidanzata virtuale – la ama davvero, come racconta al giornalista. «Se qualcuno mi chiedesse di smettere, non credo che potrei». Certo è un rapporto diverso da quello che si ha con una donna reale, ma si avvicina molto secondo Kozaki. La sua fidanzata virtuale gli manda messaggi, gli chiede consigli e così via e l’intenzione è quella di continuare il gioco per tutta la vita. «Non riesco a immaginare quello che proverei se perdessi quei dati – racconta un amico di Kozaki riguardo la propria fidanzata virtuale – non sarei più capace di pensare». La spiegazione di questo sentimento – conclude il giornalista del The Global Mail – sta nel fatto che anche le ragazze digitali possiedono lo stesso tamashii (spirito) che gli scintoisti pensano risieda in tutte le cose. «Siamo tutti uguali – afferma Kozaki – non esistono confini tra robot e persone».
Twitter: @cristinatogna