Ogni anno 5 italiani su cento iniziano una causa. Si contano 4.768 processi di primo grado ogni centomila abitanti. Il tasso di litigiosità in Italia è tra i più alti d’Europa, il doppio rispetto a Francia e Spagna, 10 volte quello della Svezia. Peggio di noi soltanto la Russia, la Lituania e il Belgio. Caratteristica della giustizia civile italiana, nel panorama internazionale, l’elevata inefficienza. Primato negativo soprattutto per quel che riguarda la lungaggine processuale: 3.450 giorni la durata media effettiva di una causa civile. Salvo rare eccezioni, Torino e Trento ad esempio, lo scenario, da Nord a Sud, è quello di un sistema allo sfascio.
Spetta a Messina il record della lentezza, otto anni tra primo grado e appello. Al Sud un arretrato di 3,3 milioni di cause, quasi metà del totale. Anche a Roma, la situazione non è incoraggiante: 1.013 giorni per una causa di primo grado, 1.504 in appello, un terzo in più che al Nord.
Una ricerca sui sistemi giuridici di 100 Paesi, condotta nel 2011 dal World Justice Project, associazione no-profit, nata nel 2006 su iniziativa dell’ordine degli avvocati americani, rileva che quello italiano, è il sistema giudiziario meno efficiente, nel gruppo dei Paesi occidentali industrializzati.
I risultati sono basati sui dati raccolti a Roma, Milano e Napoli, tra le 12 Nazioni europee, con caratteristiche politiche ed economiche simili, l’Italia è l’ultima classificata in 7 delle 8 categorie di indagine. I livelli di corruzione degli organi giudiziari, simili a quelli di Indonesia, Iran e Jamaica sono le debolezze strutturali più marcate, secondo l’associazione americana, di cui, tra l’altro, Giuliano Amato è uno dei presidenti onorari. L’Italia se la cava soltanto per quel che riguarda la garanzia dei diritti fondamentali, e il funzionamento della giustizia penale.
Un quadro pessimo, invece, quello della giustizia civile, confermato anche dalla Banca Mondiale.
Nel rapporto annuale Doing Business la performance italiana mantiene, granitica, il 157° posto in classifica su 183 Stati.
Oltre l’eccessiva durata dei processi, i fattori incriminati sono la complessità procedurale, scandita da circa 40 passaggi, e la dispersione del 30% del valore della controversia tra parcelle di avvocati e costi burocratici, contro il 14,4% della Germania e il 9,9% della Norvegia.
Non è difficile immaginare quanto questo incida negativamente sulle imprese, e limiti – inevitabilmente- gli investimenti stranieri e lo sviluppo (o la ripresa) dell’economia.
Per recuperare un credito commerciale derivante da un inadempimento contrattuale ci vogliono 1.210 giorni, in Germania ne bastano 394,331 in Francia, 300 negli Stati Uniti. Più rapidi anche in Mongolia, Vietnam e Ghana.
I numeri non lasciano spazio a equivoci, ma si tratta di un problema d’inefficienza degli addetti ai lavori, di domanda troppo elevata, o di regole procedurali? A ben vedere, tutti questi fattori concorrono a determinare la catastrofe della giustizia civile. L’organizzazione della macchina giudiziaria funziona male sotto molteplici punti di vista.
A parità – o quasi – di costi, i risultati italiani sono di quantità e qualità inferiori rispetto a quelli dei più virtuosi cugini europei. Mediamente per finanziare il sistema giudiziario, in Europa si spendono 57,4 euro pro capite, in Italia la spesa arriva a 73 euro, soltanto in Svizzera e nel Nord Europa si spende di più, per un sistema, però, che funziona.
La rete degli uffici giudiziari è frammentata e geograficamente squilibrata, esistono ancora 1.500 tribunali locali con pochissime risorse umane ed economiche, a Bari, davanti al giudice si finisce sei volte in più che a Trento. Il centro studi di Confindustria rileva che se l’efficienza dei tribunali baresi fosse stata come quella alto atesina, la crescita economica della città, nell’ultimo decennio, sarebbe stata maggiore del 2,5%.
E il capitale umano? La Cassazione ha denunciato la mancanza di oltre 1.200 magistrati, si parla di numeri in costante calo dal 2002. Attualmente i magistrati in servizio, tra tribunali civili e penali, sono 8.913, nel confronto internazionale il dato colloca l’Italia al pari degli altri Paesi.
L’organico e l’impiego di risorse finanziarie non è inferiore, anzi, in alcuni casi è superiore, a Paesi che producono risultati giudiziari di gran lunga migliori. Ogni anno lo Stato spende circa 2.3 miliardi di euro per pagare gli stipendi di magistrati, cancellieri e addetti agli uffici giudiziari. Soltanto la Germania spende di più, quasi 5 miliardi di euro. Secondo il Consiglio d’Europa, l’Italia nel 2010 era quinta tra i Paesi europei con i maggiori livelli di spesa pubblica per la giustizia e in linea con la media quanto a dotazione di magistrati per l’esercizio della funzione giudicante. Le inefficienze, dunque, non sembrano potersi attribuire alle risorse impegnate.
La disorganizzazione interna è senz’altro uno degli elementi che pesa di più, così come un utilizzo, ai minimi termini, delle tecnologie. Pochissimi tribunali hanno seguito l’esempio di Roma e Milano che hanno introdotto il processo telematico. A livello nazionale soltanto il 15% della mole totale può essere gestita via computer.
Dove invece c’è un oggettivo sovraffollamento è tra le file dell’avvocatura. Per ogni giudice ci sono 32 avvocati, 5 in Inghilterra, 8 in Francia. Un totale di 250.000 professionisti, disseminati lungo lo stivale, pagati sulla base del numero di atti e di tempo dedicato a ciascuna causa. Per ora sono rimaste in sordina le proposte di alcuni economisti, che, suggerivano un pagamento su base forfettaria, legata al risultato. Parlare di lumpsum in Italia equivale ancora a una bestemmia.
Il problema è culturale e politico. La giurisdizione è espressione di sovranità e garanzia dei diritti, si tende quindi a commettere l’errore di ignorare una valutazione economica, basata su costi e benefici per la collettività. La Banca d’Italia dice che in un terzo dei casi, le imprese industriali con oltre cinquanta dipendenti, coinvolte in una causa civile, preferiscono accordarsi fuori dal tribunale, rinunciando mediamente al 40% di quanto spetterebbe loro, pur di accelerare i tempi e avere certezza del risultato.
La legge Pinto del 2001 impone allo Stato di risarcire l’eccessiva durata dei processi. Approvata per rispondere alle oltre mille condanne della Corte europea, non è servita a molto, anzi, si è trasformata in un ulteriore aggravio del bilancio pubblico. Ancora oggi, molte delle domande risarcitorie avanzate dai cittadini italiani a livello europeo riguardano il mancato pagamento di quanto riconosciuto dai giudici a titolo di compensazione per i ritardi processuali. Per comprendere la drammaticità del problema due dati su tutti: tra il 2002 e il 2009 il valore della compensazione ha raggiunto quota 267 milioni di euro, alla fine del 2010 erano oltre 2.180 i giudizi inerenti la violazione del diritto al giusto processo pendenti difronte alla Corte europea.
L’incertezza frena così l’economia. Bankitalia stima la perdita di Pil, legata ai difetti della giustizia civile, in un punto percentuale, tradotto: 20 miliardi di euro l’anno in fumo. L’infinito percorso di riforme intrapreso nell’ultimo ventennio, non produce i frutti sperati, e allora si dovrebbe guardare oltre confine, dove dalla Francia fin Oltremanica, e persino in Spagna, sono state varate leggi sensibili al linguaggio dell’efficienza oltre a quello del diritto. L’aspetto più invidiabile di quelle riforme, è la modifica della fase preparatoria del processo, nella quale le parti e il giudice collaborano per limitare gli argomenti e le prove che si potranno trattare durante il giudizio e stabiliscono un quadro temporale entro cui deve essere ultimata la discussione. Rinvii, nuovi elementi di prova, e deviazioni di percorso, classiche dell’iter italiano, vengono evitati a monte e il giudice è vincolato al rispetto dei tempi pre-stabiliti. Elementi di non poco conto che gioverebbero senz’altro al nostro sistema, in cui concentrazione, immediatezza e oralità, supposti cardini del processo civile, restano utopie.
Un piccolo passo verso la deflazione in Italia, è stato compiuto nel 2010, in recepimento di una direttiva europea con il decreto legislativo sulla mediazione. L’obiettivo è favorire la composizione stragiudiziale delle controversie, riducendo il carico dei tribunali. Stefano Azzali, segretario generale della camera arbitrale di Milano, sottolinea però che «è meglio non generare eccessive aspettative, perché il problema della giustizia civile non si risolve con l’arbitrato o la mediazione», riconosce l’effetto deflattivo degli strumenti, ma «non sono quelle le panacee».
Le potenzialità deflattive della mediazione non sono comunque da sottovalutare, anche se, va detto, al momento l’effetto principale della riforma, fortemente osteggiata dall’ordine degli avvocati, è stato il fiorire di costosissimi corsi per mediatori ed elenchi in cui i nuovi professionisti, spesso privi di qualsivoglia conoscenza giuridica, si sono iscritti. Insomma, anziché far risparmiare soldi allo Stato si genera un giro d’affari privato?
L’intenzione non è quella, gli effetti della misura sono potenzialmente rilevanti, e il fatto che il 60% dei tentativi di mediazione vada a buon fine testimonia la bontà dello strumento, ma l’Italia non è ancora culturalmente pronta. Guardando gli ultimi dati, si può cogliere una tendenza crescente, da 33.000 mediazioni iscritte nel primo semestre del 2011 nel secondo semestre sono aumentate di 20.000 unità. Secondo le stime del Ministero della Giustizia, il numero di controversie interessate potrebbe arrivare a 700.000, certo, si è ancora molto distanti dai numeri dei processi civili.
Unioncamere segnala un risparmio di 80 milioni di euro nel secondo semestre del 2011 grazie alla mediazione: la soluzione alla lite in 43 giorni. Il presidente Ferruccio Dardanello è sicuro nell’affermare che «la mediazione civile e commerciale è una risposta efficace che incontra le esigenze delle imprese e dei cittadini e che può alleggerire il carico di lavoro dei tribunali e contribuire concretamente a rendere più snella l’amministrazione della giustizia». Va specificato che l’utilità riconosciuta dagli italiani alla mediazione così come agli altri strumenti alternativi, riguarda perlopiù vertenze d’importo relativamente modesto. In media il valore delle controversie gestite dalle camere di commercio è stato di 73.700 euro.
E il fattore corruzione, piaga della giustizia civile? Azzali sottolinea che nell’arbitrato e nella mediazione «la corruzione pone fuori dal mercato, si perdono future occasioni di incarichi e, quindi, di guadagno. È evidente che c’è anche un rilevante interesse economico a non farsi corrompere» e comunque nella sua pluriennale esperienza giura di «non aver mai visto ipotesi di corruzione». Ulteriore elemento, a favore della risoluzione alternativa delle controversie che in ogni caso non deve vedersi come una “panacea”, appunto.
L’eccessiva litigiosità italiana, la rimproverata inefficienza e la corruzione non si curano con palliativi. Servono riforme pratiche, che portino a un’allocazione dei costi più ragionevole, limitando la dispersione di capitale umano e risorse finanziarie. Soltanto dal legislatore può partire la rivoluzione culturale, fatta d’investimenti tecnologici, riduzione della frammentazione, semplificazione procedurale e riforma delle professioni.
(Articolo originariamente pubblicato su chmagazine)