Questa volta sarà colpa di YouTube: se ci pensate è la prima volta che una piattaforma online diventa indirettamente responsabile di un conflitto, in questo passaggio di epoca dalla pistola fumante alla web dichiarazione di guerra il salto di qualità merita di essere misurato.
Quando scoppiò la seconda guerra dell’Iraq ci fu un ispettore americano dell’Onu, Scott Ritter, che divenne famoso nel mondo, per un libro in cui sosteneva che in Iraq non c’erano armi di distruzione di massa. Le sue dichiarazioni, supportate da documenti ed analisi, com’è noto vennero ridicolizzate e ignorate, si andò alla guerra, e saltò fuori che le armi di distruzione di massa in Iraq, alla fine, non c’erano.
Adesso tutto è diverso, certo, tranne il senso di antipatia e di distanza che siamo naturalmente portati a provare per la dinastia degli Assad, molto simile alla freddezza e al dubbio che ispiravano Saddam e il suo ministro degli Esteri, Tareq Aziz: il governo in basco, baffoni e grigioverde. Però l’idea che si possa andare a una nuova guerra perché la pistola fumante è offerta da un video su YouTube in cui le ragioni dell’attacco sono illustrate dal Segretario di Stato Usa John Kerry qualche dubbio di metodo lo pone. Non per colpa di YouTube, e nemmeno perché le testimonianze che abbiamo visto in questi giorni non siano brutali, come tutte le altre che abbiamo visto scorrere sui nostri schermi, con i corpi straziati di donne e bambini: ma perché un intervento possa essere considerato legittimo bisogna che ci siano delle risultanze inconfutabili certificate da una autorità terza che almeno formalmente non sia parte in causa. Occorre una sede di dibattito che abbia qualcosa di più ufficiale di un comunicazione via web.
La Siria sarà brutta sporca e cattiva, certo: ma in queste ore non ha ostacolato l’azione degli ispettori dell’Onu. Eppure, nello stesso giorno in cui i pubblici ufficiali delle Nazioni Unite erano nei territori toccati dal presunto bombardamento di gas, Obama faceva il suo discorso interventista, e la Francia diceva che era pronta a partecipare a un attacco anche senza una copertura di diritto internazionale. Mi chiedo che senso abbia prospettare di continuo scenari di guerra ignorando le regole della diplomazia che solo pochi anni fa ci sembravano imprescindibili, e farlo sapendo che in questi anni le guerre americane e il loro impatto sull’opinione pubblica dei Paesi non occidentali sono state il fattore che ha rafforzato più di ogni altra cosa l’integralismo islamico. È come se non si volesse vedere che la vittoria dei Fratelli musulmani in Egitto è anche figlia delle guerre di questi anni, figlia dell’Iraq e dell’Afghanistan, figlia dell’odio che l’Occidente ha coltivato con incoscienza e con metodo. Noi ci siamo dimenticati che le prove a Baghdad non c’erano: proprio no. Noi usiamo il giusto alibi che queste guerre sono mosse contro una dittatura. Ma poi ci troviamo a giustificare le dittature come risposta all’integralismo, e allora il cerchio si chiude nel paradosso: guerre alla dittature in nome della democrazia e della necessità di garantire i diritti, e poi giustificazione delle dittature laiche in nome della tutela dei diritti. Qui dunque non si tratta della Siria, del regime che la governa e della sorte di una dinastia di dittatori, ma di qualcosa di più importante: si tratta del nostro futuro.
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