Si inizia finalmente a parlare anche in Italia dei dottorati industriali, una peculiare forma di raccordo tra l’alta formazione universitaria e il sistema produttivo sperimentata con successo nel Nord-Europa da oltre quarant’anni. Eppure, nonostante i toni enfatici con cui è stata accolta la novità, prevista da un recente decreto ministeriale (il n. 45/2013), molti sono i dubbi circa la concrete prospettive di sviluppo di questa innovativa forma di dottorato.
Non mancano certo, in molti dei nostri ricercatori, l’impegno e la capacità di sperimentare il nuovo. È il sistema, piuttosto, a innalzare un vero e proprio muro. Anche perché i dottorati di ricerca italiani si sono spesso caratterizzati, in negativo, come scuole autoreferenziali di formazione e cooptazione di accademici e futuri professori, più che come vibranti centri di innovazione, trasferimento tecnologico e avanzamento delle conoscenze del sistema economico sociale e produttivo del Paese.
Difficile del resto coniugare la logica dei dottorati industriali con le procedure del diritto amministrativo che, invero, poco hanno sin qui potuto rispetto a una prassi di una cooptazione de facto e intuitu personae dei dottorandi in funzione di logiche puramente accademiche, come tali lontane dai fabbisogni espressi dal mercato del lavoro e dalla imprese che, a ragione, guardano ancora con diffidenza alle università e ai dottorati di ricerca.
Pare questo un campo emblematico di quell’eccesso di burocrazia e antiquata “giustizia amministrativa” recentemente denunciato da Romano Prodi e Angelo Piazza sulle colonne del Messaggero. Un dottorato industriale, per funzionare, deve essere aperto al mercato e consentire un reale protagonismo delle imprese senza che la selezione e formazione dei giovani ricercatori venga ingabbiata in un cavilloso sistema di regole che, nei fatti, nega quel principio di trasparenza e uguaglianza che pure intende tutelare.
Il decreto ministeriale nulla dice, in realtà, su cosa sono questi dottorati industriali e su quali regole applicare. Proprio per questa ragione il terreno è già diventato dominio delle burocrazie accademiche e ministeriali che non posso far altro che operare secondo le logiche del diritto amministrativo, assegnando una posizione di supremazia all’attore universitario che comprime e nega l’idea, sottesa al dottorato industriale, di un partenariato paritario con le imprese interessate a investire su giovani ricercatori.
Dando per scontato che solo l’università è il soggetto abilitato al rilascio del titolo, tutte le fasi di selezione, reclutamento e formazione dei candidati sono dettate a immagine e somiglianza del mondo accademico, con logiche di governance che non ammettono, se non in posizione subalterna, il coinvolgimento delle imprese. Le prime indicazioni operative stanno così portando a intensificare i nuovi dottorati industriali sulla base di meri requisiti formali, come la presenza di una o più convenzioni con il sistema delle imprese, e non invece in funzione dei contenuti, dei metodi e dei relativi percorsi formativi e di apprendimento.
Bene, dunque, che anche il Legislatore italiano getti lo sguardo oltralpe e cerchi di importare le buone pratiche presenti in altri Paesi. Ma questo solo se oltre alle vuote etichette si presti attenzione anche e soprattutto alla sostanza. Che cosa siano i dottorati industriali lo afferma del resto con chiarezza la Commissione Europea, che, nei “Principles for Innovative Doctoral Training” del 27 giugno 2011, definisce il dottorato una modalità di avanzamento della conoscenza attraverso ricerca originale, non più limitata al mondo accademico, ma finalizzata a rispondere ai fabbisogni del mercato del lavoro. Il termine “industriale” include quindi tutti i settori del mercato del lavoro privato e pubblico, imprese, istituzioni pubbliche, ong e istituzioni di tipo caritatevole o culturale.
La collaborazione con il sistema produttivo non deve necessariamente seguire uno schema rigido e formalistico e può essere strutturata in vario modo, purché orientata al trasferimento di competenze, tecnologie e personale. Un esempio è quello danese dove il dottorato industriale, finanziato con fondi prevalentemente pubblici, consiste in un progetto industriale triennale dove il dottorando è al tempo stesso assunto da un’impresa e immatricolato in un’università. Anche in Francia si prevede un contratto di lavoro con l’impresa per attività di ricerca guidata da un supervisore aziendale altamente qualificato; in Germania, il dottorando stipula un contratto di lavoro con l’università, l’impresa o il centro di ricerca per sviluppare il progetto, anche mediante convenzioni individuali con procedure snelle.
Diverso è il “dottorato professionale” tipico del mondo anglosassone finanziato dai privati e che mira soprattutto all’applicazione in contesto lavorativo delle competenze acquisite, ma che ha molti punti in comune con il dottorato industriale. Nonostante le differenze nella realizzazione pratica tra i vari Paesi, uno sguardo comparato consente di comprendere meglio cosa sia il dottorato industriale, vale a dire una collaborazione tra atenei e imprese basata su partenariati paritetici e modalità di attuazione versatili, finalizzato al trasferimento di competenze, per l’innovazione e l’occupabilità, dove il dottorando è visto come “lavoratore” più che come “studente” e strutturato non secondo logiche accademiche, ma secondo le reali esigenze del mercato. Se invece di prestare attenzione alla sostanza ci soffermiamo solo sul formalismo e sulle vuote etichette proseguiremo nella serie di fallimenti che hanno caratterizzato i tentativi di innovazione sul versante della alta formazione come nel caso dell’apprendistato per la ricerca e il dottorato che, nonostante sia stato introdotto dalla legge Biagi nel 2003, ancora non decolla.
*Centro Studi Internazionali e Comparati “Marco Biagi” – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
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