Un articolo di Rachel Sanderson apparso sul Financial Times del 20 agosto (Italian business: No way back) indicava la fine del vecchio capitalismo italiano, basato su partecipazioni incrociate e centralità di “famiglia e amici”. La crisi economica e finanziaria sarebbe all’origine di una necessità di ristrutturazione: i soldi sono finiti – questa è la tesi – e ciò comporta la fine di vecchie pratiche inefficienti che rendono le imprese troppo vulnerabili (a scalate esterne, in primo luogo). L’articolo è stato riportato su alcune testate italiane e ha suscitato un certo dibattito, e forse qualche speranza. Tuttavia, alcune ricerche condotte negli ultimi anni mettono in dubbio la natura rivoluzionaria di questa trasformazione.
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L’analisi delle reti sociali (Social Network Analysis) è uno strumento utile per comprendere “chi” conta in una rete, quali sono i suoi rapporti con le altre persone nella rete, amici e parenti inclusi. Le tecniche sono complesse, ma l’idea di fondo è che si possano creare delle mappe di relazioni. In questo caso è possibile rintracciare il numero di connessioni di un individuo che occupa una posizione – ad esempio, siede in un consiglio d’amministrazione – con altri (che siedono negli stessi CdA).
In una serie di studi, Paolo Santella, Carlo Drago e altri autori hanno mostrato come nel tempo la rete dei legami fra i membri dei CdA delle società quotate alla Borsa di Milano sia molto stabile nel tempo (fra il 1998 e il 2006) e che le persone che siedono in più board sono un numero limitato (li chiamano i Lord della Borsa italiana). Inoltre, questi individui fanno spesso parte di alcune grandi famiglie e sono, in larga misura, uomini.
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In una ricerca in corso al momento, abbiamo esteso l’arco temporale dell’analisi al 2012 e ci siamo concentrati sull’impatto delle ondate di privatizzazione delle aziende pubbliche (Eni, Enel, Finmeccanica e le numerose ex-municipalizzate): chi sono i consiglieri d’amministrazione di queste aziende e con chi sono collegati? L’estensione temporale dell’analisi conferma la sostanziale stabilità della rete del capitalismo finanziario italiano. Impressionisticamente, i “grandi nomi” (presenti fra i 20 consiglieri più connessi nel 2012 secondo la nostra ricerca nonché nella lista dei Lord di cui sopra) sono segnalati nella figura 1. L’immagine mette in luce la “connessione” di numero limitato di individui al centro del network con un numero elevato di altre persone “centrali” nella rete della Borsa italiana.
Figura 1
È interessante notare anche come le aziende ex-pubbliche, in buona misura, si siano integrate nel sistema, e siano connesse ad alcuni grandi centri del capitalismo italiano. La figura 2 mostra i legami di alcune di queste società con altre quotate in Borsa (rappresentate dal settore di business).
Figura2
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Auspicare o desiderare un cambiamento epocale è lecito. Fino ad ora, però, l’evidenza empirica non permette di delineare percorsi evolutivi univoci. Il capitalismo finanziario italiano cambia, certamente: sono cambiate le regole (le riforme sulla corporate governance adottate a partire dalla fine degli anni Novanta), l’ambiente economico internazionale (è aumentata la scalabilità di imprese e banche da parte di omologhe straniere), le tecnologie e, anche in Italia, tempo e giustizia fanno il loro corso. Ma il “salotto buono”, se così si può dire, gode ancora di buona salute. Forse sarebbe il caso di riconoscerne alcune caratteristiche, ed eventualmente problemi, con meno sensazionalismo e più spirito analitico.
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