«Non è vero che sono stato licenziato. Le cose andarono diversamente, ma cosa successe resta tra me e Roman». In questa frase di José Mourinho è spiegato tutto Abramovich. A cominciare dal rapporto tra il magnate russo e lo Special One: talmente stretto, che il padrone del Chelsea lo ha richiamato in panchina in occasione dei dieci anni di presidenza del club. Mou è l’unico ad essere ritornato, da quando Abramovich è al timone dei Blues. Aveva fallito l’assalto alla Champions League, dopo averla vinta con il Porto. Non gli erano bastati due campionati, arrivati nella bacheca londinese dopo decenni di attesa. E il portoghese è anche l’unico ad essersi permesso di parlare del capo: nessuno può. Anche Carlo Ancelotti, qualche anno dopo, farà la stessa fine: vittoria in campionato e fallimento in Europa. Per non parlare di Rafa Benitez e Roberto Di Matteo: vittoriosi in Europa ma non in casa: alzarsi dalla panchina e andare, dasvidania.
Tutti gli epurati, una volta andati, non hanno parlato di Abramovich. Già, perché nei contratti che ti fa firmare quando cominci a lavorare per lui, oltre ai tanti zeri c’è una clausola che ti impedisce di rilasciare dichiarazioni sul boss. E quando chiede spiegazioni, niente scherzi. Una voce diventata conferma con gli anni racconta che, ogni volta che il Chelsea perde, sul cellulare dell’allenatore di turno arriva un sms con un solo carattere: «?». Una domanda alla quale si risponde solo di persona. Ancelotti invece tutte le volte replicava con un «!» e sappiamo che fine ha fatto. Potrebbe farlo anche Mourinho e Abramovich la prenderebbe a ridere.
Ormai è chiaro: esiste un essere ibrido chiamato “Abramouvich”. Unico, indivisibile, eppure al suo interno mai così diverso. Di Mourinho si sa praticamente tutta una carriera segnata da ritorni e comportamenti ripetuti. Da quando cominciò al Barcellona al fianco di Sir Bobby Robson e si dichiarava blaugrana per sempre ai successi nel Porto, dove ha vinto tutto, fino all’Inter (dove ha vinto tutto di nuovo) passando per la prima volta al Chelsea e tornandoci dopo il Real e aver giurato stavolta guerra ai blaugrana. Si sa che ha sempre attaccato il nemico quando serve, blandito i tifosi della sua squadra, escluso giocatori forti come Balotelli e Casillas. Si conoscono le cifre dei suoi contratti, anche perché una volta quando era all’Inter le rese pubbliche in una delle tante conferenze stampa passate alla storia.
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Di Roman si conoscono delle cose, ma molte sono avvolte nel mistero, proprio come quel punto interrogativo via sms. Si sa che è diventato ricco facendo affari nel campo dell’energia a metà anni Novanta grazie all’amicizia (diciamo così) con Tatiana, figlia di Boris Eltsin. Suo socio era un altro Boris, il signor Berezovsky, morto suicida qualche mese fa a Londra, braccato da Vladmir Putin. Resta un mistero come abbia fatto a diventare amico del premier russo e ad affidargli la tv di Stato dopo averla strappata al socio, lasciandolo in braghe di tela. Di Abramovich si sa che ha rappresentato la regione della Chukotka alla Duma, ma non il perché. In fondo là non c’è granché. Dicono la usi per depositarci rifiuti tossici. Come non si sa perché nel 1992 alcune cisterne di carburante sparirono e ricomparsero in Lettonia. Lo accusarono di furto, ma alla fine gli dovettero pure chiedere scusa. Mistero.
Le differenze non finiscono qui. Mourinho è il mago della comunicazione, lo si è visto bene nei suoi due anni in Italia. Attacca in maniera preventiva, usa frasi studiate ad hoc, sa sempre come comportarsi di fronte a microfoni e taccuini. Nel suo staff ha due esperti che si studiano le conferenze stampa passate degli avversari, per capire dove e come colpirli. Fa tutto allo scoperto, Mourinho. Quando arrivò al Chelsea, si definì Special One. Fu inondato di critiche, ma ottenne il risultato, poi replicato con successo all’Inter, di attirare tutte le attenzioni su di sé. Mourinho non è un Leonida: il guerriero sapeva che avrebbe perso, il tecnico sa che può vincere. Come quando, alla vigilia del ritorno della semifinale di Champions 2010, al Camp Nou, scese in campo da solo, a beccarsi i fischi inferociti di tutto lo stadio. Li fece sfogare e quando entrò l’Inter per il riscaldamento, i catalani avevano esaurito il fiato. Quando parla, sa che le sue parole sono come macigni. In serie A, risuona ancora l’eco della «Prostituzione intellettuale» e degli «Zero tituli».
Abramovich lascia parlare i soldi. Sono rare, rarissime le sue interviste. Quando vuole una cosa, apre il portafoglio. Poche chiacchiere. «E’ come se avesse piazzato i suoi carrarmati sulla Premier League», spiegò una volta un dirigente dell’Arsenal, con evidente riferimento al Risiko. Non ci andò lontano, come paragone. Perché Abramovich, che pare scelse il Chelsea sorvolando lo stadio Stamford Bridge con l’elicottero, quando vuole una cosa va e se la prende, piazzandoci sopra il suo bel carrarmato. Quanto costa quel giocatore? E lo compra, a volte senza nemmeno stare a sentire il prezzo. Lo fa con i giocatori e con i quadri. Già, Abramovich è diventato grande estimatore d’arte, da quando sta con Daria Zhukova, che ama tantissimo Picasso: gliene ha comprato uno, pagandolo 106,5 milioni di dollari.
L’ostentazione è un tratto che li unisce, in effetti. Il portoghese entrò a San Siro per sfidare il Milan con il Real e rivolse alla curva sud tre dita, a ricordare il “Triplete” ottenuto con i nerazzurri. Il russo non manca di esibire la propria ricchezza con i suoi yacht, tra i più grandi del mondo e di cui uno dotato anche di un apparato anti-missile. Deve essere questo a unirli. Abramovich ha bisogno di qualcuno che si esponga esteriormente per lui che, al massimo, saltella sulla sua sedia allo Stamford Bridge (mentre Mou non disdegna di correre fino alla linea di fondo per abbracciare un suo giocatore). Ha bisogno di uno che amplifichi il suo sorriso gelido e lo trasformi in stilettata, in attacco, in vittorie. Ha bisogno di uno Special One.
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