Cina, problemi di debito: li risolve il modello Europa?

Maastricht cinese per Pechino

«Credevano che i soldi ci sarebbero stati per sempre e quindi si sono indebitati. Per un po’ il loro gettito fiscale è cresciuto del 50 per cento, pensavano che sarebbe andata avanti così anche per i prossimi cinque anni e quindi hanno speso i soldi prima». La tirata d’orecchi rivolta ai governi locali cinesi non arriva da un analista qualsiasi, bensì da Lou Jiwei, che di mestiere fa il ministro delle Finanze del Celeste Impero.

Lou parla oggi, dopo avere evidentemente appreso i primi risultati della grande indagine lanciata a fine luglio sui bilanci di province, municipalità, paesi e villaggi, che dovrebbe offrire gli strumenti per mettere un tappo sul buco nero del debito cinese, che risucchia risorse spendibili altrimenti e rischia di interrompere la crescita trentennale. La tirata d’orecchi appare bonaria. Segno che la situazione, pur grave, è comunque gestibile. Il punto è: come?

Un passo indietro. Un rapporto del 2011 calcolava il debito delle amministrazioni locali cinesi in 10.700 miliardi di yuan (1.326 miliardi di euro), mentre lo scorso aprile l’ex ministro delle Finanze, Xiang Huaicheng, ha affermato che l’importo attuale può ammontare a circa il doppio: oltre 20mila miliardi di renminbi.

Sono diversi indicatori a farlo pensare. Il debito è cresciuto di pari passo con il sistema bancario ombra, principale fonte di finanziamento per governi locali che non hanno molti altri strumenti per rastrellare liquidità (la quale, va detto, serve molto spesso per investire in bolle speculative per niente produttive sul lungo periodo).

Se poi si considerano i dati relativi ai prestiti bancari “regolari” concessi alle cosiddette Lgfp (local government financing platforms) – escludendo cioè il credito ombra – si osserva che sono arrivati a 9.590 miliardi di renminbi nel primo trimestre 2013 (più 30 per cento rispetto al quarto trimestre del 2009), secondo le statistiche dalla China Banking Regulatory Commission.

Infine, una ricerca ufficiale su 36 città capoluogo di provincia che risale all’inizio di quest’anno ha riportato che i loro debiti complessivi ammontano a 3.850 miliardi di renminbi e nove di queste hanno un rapporto debito/Pil che ha ormai superato il 100 per cento (sì, avete capito bene, come l’Italia). I nomi delle nove città non sono stati resi noti, ma gli analisti hanno ristretto la lista delle papabili a dieci: Nanjing, Chengdu, Guangzhou, Hefei, Kunming, Changsha, Wuhan, Harbin, Xian e Lanzhou. Metropoli non di poco conto.

Insomma, è ragionevole pensare che quei 20mila miliardi di renminbi siano tutto sommato una cifra ottimista. La mancanza di trasparenza su tutta la faccenda ha per altro in seguito indotto l’agenzia di rating Fitch a declassare il debito del Dragone.

Ora, ci sono diverse soluzioni per contenere il debito, ma innanzitutto ci vogliono criteri per misurarlo e tenerlo costantemente sotto controllo, affinché non sia tutto demandato a una mega inchiesta voluta da Pechino una volta ogni tanto. E in questo la Cina potrebbe ispirarsi alla vecchia Europa, che di debito se ne intende.

Sì, parliamo proprio dei famosi criteri di Maastricht, così discussi e criticati dalle nostre parti, ma che dall’altra parte dell’Eurasia potrebbero fare da linea guida per un analogo sistema cinese: deficit sotto il 3 per cento e debito pubblico sotto il 60 per cento del Pil, come “red line” da non oltrepassare.

È il prestigioso Peterson Institute for International Economics, think tank Usa pluripremiato, a suggerirlo. Anzi, secondo l’istituto, il limite del debito per le amministrazioni locali dovrebbe essere ancora più basso rispetto a quanto concesso al governo centrale, considerando il loro accesso limitato alle risorse: compreso quindi tra il 40 e il 60 per cento.

I motivi di ottimismo rispetto alla capacità della Cina di uscire dall’indebitamento con se stessa risiedono soprattutto nel fatto che, a differenza per esempio degli Stati Uniti, il governo cinese possiede una grande quantità di gioielli di famiglia: asset produttivi, tra cui infrastrutture, immobili, risorse naturali, imprese.

Secondo l’Accademia Cinese di Scienze Sociali, alla fine del 2010 le attività operative del governo cinese ammontavano a 21.500 miliardi di renminbi, di cui il 47,4 per cento appartenevano ai governi locali. Le attività non operative erano invece pari a 7.800 miliardi e le risorse naturali a 44.300.

Altro indicatore positivo: le entrate fiscali del governo centrale sono incrementate costantemente, grazie alla rapida crescita economica, per raddoppiare negli ultimi cinque anni fino a raggiungere 10.100 miliardi di renminbi nel 2012. Insomma, c’è possibilità di “crescere fuori del debito”, senza limitarsi solo al taglio degli sprechi (misura comunque necessaria).

In definitiva, una manovra di accerchiamento antidebito fatta di più misure dovrebbe funzionare: mettere sul mercato parte del patrimonio dei governi locali mentre si estende la tassa sulla proprietà immobiliare a tutta la Cina (ora c’è solo a Shanghai e Chongqing e si osservi che negli Usa, tale patrimoniale produce ben in 33 per cento delle entrate fiscali dei governi locali e di quello federale); ristrutturare il debito delle amministrazioni attraverso le quattro società di gestione del risparmio – Huarong, Cinda, Orient e Great Wall – che nel 1999 hanno già salvato le banche indebitate, mentre al tempo stesso si potrebbe permettere ai governi locali di emettere obbligazioni. Oggi non possono farlo, è il governo centrale che recepisce la richiesta dell’amministrazione tal dei tali ed emette obbligazioni in sua vece, per una quota annuale comunque estremamente limitata.

E così via: un colpo al cerchio (risparmio) e l’altro alla botte (crescita), con sullo sfondo il controllo politico-giudiziario dei funzionari locali manolesta.

La tirata d’orecchi bonaria del ministro Lou sarebbe quindi dovuta al fatto che probabilmente le autorità cinesi intravedono un margine ampio per uscire dalla crisi del debito senza tarpare troppo le ali alla crescita. Giusto pochi giorni fa, è sembrato che il presidente Xi Jinping confermasse queste sensazioni quando, in un discorso ufficiale rivolto a orecchie esterne e interne, ha spiegato pacioso che per la Cina si tratta oggi di crescere un po’ più lentamente per risolvere i “problemi fondamentali” di un’economia in transizione. E se all’estero il messaggio era rivolto soprattutto ai mercati – “abbiate pazienza, suvvia” – all’interno si tratterà ora di tranquillizzare i cinesi assetati di benessere. La nuova parola d’ordine che circola a Pechino è “gestione delle aspettative”. E qui si passa dall’economia alla politica.