Crescita, l’Italia ha fame di investimenti esteri

Telecom e la sfida Destinazione Italia

Sono passati meno di dieci giorni da quando il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera a “Destinazione Italia”, il piano che colleziona una serie di proposte di riforma volte a migliorare la competitività del sistema paese e renderlo più attraente agli occhi degli investitori esteri (e non solo).

La stretta concomitanza fra l’approvazione del documento da parte del Governo e il passaggio di Telecom sotto il controllo spagnolo è un brutto scherzo del destino. Così come lo è la probabile acquisizione della quota di controllo di Alitalia da parte di Air France. A questo “scherzo” buona parte dei commentatori ha risposto all’unisono condannando la “svendita” dei gioielli di casa a un paese straniero (interessante come nessuno si sia strappato i capelli per il passaggio dell’Inter a investitori indonesiani!). Il rischio è che due situazioni particolarissime come quelle di Alitalia e Telecom finiscano non solo per offuscare l’importanza di attrarre investimenti esteri per il rilancio della nostra economia, ma anche per bollare come superfluo lo sforzo che è stato compiuto per arrivare alla definizione di “Destinazione Italia”. Questo pericolo può essere in parte evitato se ci si sforza di contestualizzare il documento del Governo all’interno di una logica di benefici e costi degli investimenti diretti esteri sul benessere del paese.

Per fare ciò vale la pena iniziare da questa semplice domanda: è vero che l’Italia attrae meno investimenti esteri relativamente ad altri paesi? La risposta è altrettanto semplice: l’Italia ha una bassissima capacità di attrazione. La Figura 1 mostra i flussi medi di investimento diretto estero in entrata (al netto di eventuali dismissioni) per vari paesi come percentuale del loro Pil. Dal 2000 a oggi i flussi per l’Italia si fermano all’1 percento del Pil. Il confronto con altri paesi è impietoso. La media per l’area Euro è pari al 3,2% del Pil; per i paesi Ocse al 2.3%. Non sorprende che soltanto la Grecia faccia peggio di noi.

Figura 1 – Flussi medi di investimenti diretti sul PIL nel periodo 2000-2013Source: World Bank. I dati si riferiscono a flussi di investimento estero al netto delle dismissioni.

I dati da soli non aiutano a rispondere a un’altra domanda, forse ancora più importante: quali sono i motivi che dovrebbero spingere un paese a fare tutto il possibile per attrarre investimenti esteri? In altre parole, qual è il loro contributo all’economia di un paese? Domande solo all’apparenza banali. Iniziamo a rispondere notando che se i flussi di investimento estero raggiungessero i livelli tedeschi disporremmo di risorse aggiuntive per circa 16 miliardi di euro l’anno. In tempi di vincoli di bilancio (pubblici e privati) molto stringenti, flussi di questa portata potrebbero rappresentare una fonte importantissima di creazione di ricchezza e posti di lavoro.

Ma i benefici di un maggiore flusso di investimenti esteri superano il loro valore monetario. Essi possono infatti produrre esternalità positive sul sistema economico in termini di competenza, qualità del management, training dei lavoratori, innovazione di processo e prodotto. Il successo degli ultimi venti anni di molte aziende israeliane che operano nei settori ad alta tecnologia si può attribuire alla presenza di capitale straniero, che ha portato competenze di management migliori a quelle presenti in Israele. Si pensi poi all’investimento di Fiat in Chrysler che ha dotato di tecnologie e prodotti superiori il terzo produttore USA di automobili, contribuendo così al suo rilancio.

La ricerca economica trova un rapporto positivo tra flussi di investimento diretto estero e crescita (al riguardo, si vedano i lavori di Laura Alfaro o di Eduardo Borensztein e rispettivi coautori). Questo rapporto virtuoso è più intenso quando i paesi beneficiari hanno un elevato stock di capitale umano, un sistema finanziario ben funzionante e, in generale, quando offrono un ambiente di investimento favorevole. Alla luce di queste evidenze è da giudicare positivamente il fatto che fra gli obiettivi di “Destinazione Italia” ci sia non solo di attrarre investimenti esteri una tantum, ma anche a migliorare il contesto economico in cui gli investitori esteri e domestici si trovano a operare.

Nel dettaglio, il piano “Destinazione Italia” presenta cinquanta aree e indica per ciascuna le criticità legislative da risolvere. Si va dalla maggiore chiarezza e certezza fiscale a tempi amministrativi ridotti e procedure snelle per ottenere le necessarie autorizzazioni; da una normativa del lavoro meno opaca e meno rigida, alla riforma – in parte già iniziata – della giustizia civile. Si evidenzia l’importanza di nuovi strumenti di finanziamento per le imprese, degli investimenti in ricerca; della banda larga e della digitalizzazione della pubblica amministrazione. Alcuni dei provvedimenti sono specificatamente pensati per favorire l’investimento estero (ad esempio, l’istituzione di un tutor che faciliti i contatti con amministrazione pubblica e agenzia delle entrate), ma molti degli interventi costituiscono una dettagliata agenda di riforme volte a migliorare il contesto in cui nascono e operano le imprese.

La maggiore critica a Destinazione Italia è proprio legata alla sua ambizione e alle relative difficoltà di rendere concreti i provvedimenti suggeriti. Alcune di queste critiche non sono del tutto infondate: approvare un nuovo testo unico sul lavoro, accelerare i tempi e ridurre i costi della giustizia civile, riformare le procedure che regolano le conferenze dei servizi o digitalizzare la pubblica amministrazione non sarà certo facile. Bisogna però riconoscere che per migliorare quel quarantaduesimo posto (sotto la Polonia e subito prima della Turchia) che il World Economic Forum ci assegna nella graduatoria di competitività internazionale, l’Italia deve ridisegnare la sua economia attraverso riforme radicali pensate su un orizzonte di lungo periodo. Il governo avrebbe potuto in alternativa proporre un numero più limitato di riforme con l’obiettivo di massimizzare la probabilità di una loro attuazione. Tuttavia, una strategia poco ambiziosa non può oggi riuscire significativamente a chiudere il gap di competitività.

Per aumentare il flusso di investimenti diretti esteri rispetto a quel modesto 1 percento di Pil, e magari raddoppiarlo, bisogna portare avanti quelle riforme in grado di convincere, prima di tutto noi stessi, che l’Italia è il paese in cui e su cui investire. Destinazione Italia indica la strada da seguire. Speriamo che lo scetticismo di tanti sia vendicato dai fatti.

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