ASOLO (TREVISO) – Come tutte le storie, anche quella del distretto della moda trevigiano e vicentino ha un prima e un dopo. Prima: quando c’era Benetton che faceva produrre alle aziende locali i suoi maglioni colorati. Dopo: quando Benetton a febbraio ha tagliato le commesse, preferendo la più economica manodopera straniera e delocalizzando all’estero. La storia si potrebbe concludere con la chiusura delle circa 87 imprese e la perdita del lavoro per tutti i 600 dipendenti (che arrivano a più di 4mila se si aggiungono i laboratori di subfornitura) che erano coinvolti nella filiera della United Colors. Ma è a questo punto che, a sorpresa, potrebbero arrivare i nuovi protagonisti di questa storia: gli stranieri interessati al made in Italy. Cinesi, tedeschi, e in futuro anche francesi e americani.
«Lavorare solo per Benetton all’inizio andava bene, poi ci ha chiuso come in una scatola. Anzi, se se ne fossero andati prima sarebbe stato meglio», ammette Giuliano Secco, presidente provinciale e regionale della categoria abbigliamento di Confartigianato. Forse c’era bisogno dell’addio della famiglia di Ponzano veneto per far riemergere le capacità tenute sopite negli di Benetton e guardare oltreconfine. «C’erano laboratori che sapevano fare solo una cosa, chi i coprispalla chi solo alcune rifiniture. Il lavoro era quello e basta. Ora bisogna rinascere».
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La strategia della Confartigianato locale è quella di rilanciare il distretto, favorendo l’incontro con gli operatori stranieri. E per farlo serve cambiare la mentalità delle imprese: dimenticare “mamma” Benetton e innovarsi, guardando ai mercati esteri. «Non rimarremo con le mani un mano. Il tessile qui vivrà anche senza Benetton, e lo farà puntando sull’eccellenza», dice Francesco Giacomin, segretario Confartigianato della Marca trevigiana. Che con l’Istituto nazionale per il commercio estero (Ice) ha organizzato in questi giorni diversi incontri tra 17 imprenditori veneti (12 trevigiani, 5 vicentini, per un totale di 350 addetti) e 26 buyer volati nella Marca trevigiana da Shangai, Pechino e Germania (il progetto si chiama Ies, Incoming exit strategy). Con un obiettivo: mandare tra un anno gli imprenditori nostrani in Cina per toccare con mano un mercato che in questi anni nel tessile-abbigliamento ha fatto la parte dell’acerrimo nemico al ribasso.
I cinesi che in questi giorni stanno visitando le aziende venete sembrerebbero interessati invece al made in Italy di qualità. «Dall’Asia vogliono il vero made in Italy», dice Secco, «ma chiedono le certificazioni che non sia fatto da cinesi in Italia». Tra gli imprenditori arrivati ad Asolo, nel trevigiano, ci sono i buyer che hanno proprie reti di vendita e sono interessati al prodotto finito, altri che in questi giorni cercano produttori italiani per i propri marchi. Basta mettere da parte la paura che gli ex nemici cinesi qui siano arrivati solo per copiare i modelli nostrani. «Qualcuno di loro mi ha chiesto di produrre per loro, ma con i loro materiali», racconta uno degli imprenditori presenti agli incontri, «io ho detto che così non va. Se vogliono il made in Italy lo facciamo come diciamo noi».
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Il primo passo è quello di “mappare” le imprese del distretto. Sono di due tipi, spiega Alberto Munari, consulente di Confartigianato Treviso: «Quelle che producono il manufatto finito e hanno una propria rete di vendita, e le aziende che lavorano per conto di altri marchi con un prodotto finito o semilavorato». E oltre a Benetton, a produrre qui ci sono grandi griffe anche straniere, da Chanel a Hermès. Le “teste” del sistema moda di Treviso sono in tutto 1.431, di cui 865 artigiane, con un numero totale di addetti che sfiora le 20mila unità. Si tratta di realtà che hanno nella maggior parte dei casi pochi dipendenti, ma che sono legate ad almeno 15-20 laboratori artigiani di subfornitura, facendo crescere quindi il numero dei lavoratori coinvolti.
Tra le aziende censite, ci sono quelle che nel “post Benetton” hanno già avviato un cambio di marcia, sia nei prodotti sia nelle organizzazioni delle fasi di lavoro. «Come l’azienda che dai 600mila capi per ogni stagione di prima è passata ai 60mila capi di adesso, ma con un valore aggiunto così alto da dover assumere quattro nuove persone per fare nuovi tagli, azzerando gli scarti di tessuto e tornando al taglio a mano. Questa azienda ora non accetta commesse perché è piena di lavoro». E poi ci sono le aziende che hanno bisogno di una sferzata, «per imparare a relazionarsi non più con un solo committente, ma con l’intero mercato». Il valore aggiunto, qui, è «la capacità del problem solving», spiega Munari. «Le aziende arrivano e trovano tutto, dal filato fino al confezionamento e alla spedizione, perché dietro ogni azienda ci sono 15-20 laboratori. È arrivato, ad esempio, un imprenditore che voleva i bottoni a forma di “S”. Qui hanno trovato la soluzione. Ci sono aziende che addirittura acquistano loro stesse i prodotti per conto di marchi altissimi, lavorando insieme agli stilisti».
Il segreto, spiega Secco, «è portare le subforniture a un livello più elevato, sfruttando la qualità e non più solo la quantità come è avvenuto finora». Puntando ad esempio sulla formazione di figure artigiane che qui, nella Marca, si stanno perdendo nelle generazioni. «Rimagliatrici, rammendatrici o orlatrici non si trovano più perché nessuno più sa fare questi lavori. Nella nostra mappatura è venuto fuori che la più giovane rimagliatrice qui ha 55 anni». E c’è anche chi, come la maglieria Sambucari, vanta una magliaia di ben 74 anni. Si tratta di «più di cento posti di lavoro che dovrebbero essere coperti», precisa Giuliano Secco, che con la sua azienda quest’anno per la prima volta ha prodotto in Italia le sciarpe di Telethon che fino allo scorso anno venivano fabbricate in Cina. «Benetton ha sottomesso questa provincia con il suo modo di produrre. Ti dicevano anche a quale banca ti dovevi rivolgere e come lavorare. Ora è arrivato il momento di riconoscere il valore dei nostri laboratori».
La soluzione, ovviamente, si trova all’estero. Non certo nel mercato nazionale. «Prima, anche se si lavorava con l’estero, avendo un capo comune c’era magari un intermediario che comunicava con gli stranieri. Le aziende non “vedevano” l’estero», spiega Roberto Santolamazza, direttore di Treviso Tecnologia. «Parlare vis-à-vis richiede invece nuove competenze. Magari partire dal biglietto da visita in inglese, o sviluppandosi sul Web. Molti oggi hanno una pagina vetrina con indirizzo email o poco più». I passi più complicati per la reindustrializzazione post Benetton saranno gli investimenti. In materiali nuovi, tecnologia e anche personale. Note dolenti, gli investimenti, in un periodo di magra. Bisognerà capire ora quante aziende sono pronte per la seconda parte della storia.