Ecco chi saranno i futuri leader del mondo

Gli astri nascenti dei prossimi G20

Non può esserci alcun dubbio, le più grandi elezioni del mondo saranno quelle del 2014 in India, per le quali la campagna elettorale inizierà a novembre. Probabilmente la scelta sarà tra un erede designato – Rahul Gandhi, che ha in famiglia un bisnonno, una nonna e un padre che hanno direttamente diretto il paese, e una madre che lo fa indirettamente da molti anni – e un capo dell’opposizione che invece va fiero delle sue umili origini. Anche se di cariatidi è pieno anche il Bharatiya Janata Party (Bjp), è difficile che il partito induista-nazionalista, all’opposizione da nove anni, non finisca per scegliere Narendra Modi.

Narandra Modi

Il problema del Bjp è generazionale: il suo ascetico leader, Lal Krishna Advani, ha 85 anni e non ha nessuna intenzione di cedere le redini. Invece il carismatico Modi, grande e grosso, ne ha 62, quasi un bebè per gli standard della politica in Asia sudorientale. Dal 2000 Primo ministro del Gujarat, in India occidentale, viene da una casta inferiore e ha scalato uno a uno tutti i gradini. Rieletto a dicembre 2012, dopo aver esercitato un potere quasi assoluto a livello locale pensa che sia arrivato il momento del grande passo. Prima mossa, piazzare Amit Shah, il suo consigliere più fidato, al posto chiave di segretario generale del Bjp (malgrado penda su di lui un’accusa di omicidio).

Anche per Modi il problema sono le ombre sul suo passato. Oltre a coltivare l’immagine di uomo forte pronto a tutto per difendere gli interessi degli induisti, rivendica con fierezza la sua attitudine durante gli scontri etnici del 2002 nel Gujarat, quando, in rappresaglia per la morte di 59 pellegrini hindu in un incidente ferroviario, oltre mille persone, soprattutto mussulmani, vennero uccise. Non ci sono prove che Modi abbia incoraggiato le azioni commesse (mentre Maya Kodnani, un suo ministro, è stato condannato a 28 anni), eppure non c’è dubbio che le forze di sicurezza chiusero un occhio, spesso ambedue, e in qualche caso fecero di peggio.

Sarà forse semplice per il Bjp convincere il suo elettorato tradizionale a recarsi alle urna in massa, molto meno allargare i consensi a sufficienza per vincere almeno 200 seggi e costruire una coalizione solida (a proposito: in un paese con una popolazione venti e passa volte superiore all’Italia, alla Camera siedono in 545…). Modi dovrà parlare di occupazione, sviluppo e corruzione e convincere le persone che i successi economici che ha indubbiamente registrato in Gujarat (raddoppio del reddito pro capite) sono replicabili a più grande scala. Magari con un impatto sociale migliore (lo stato ha una cattiva performance in termini di riduzione della povertà e miglioramento della salute).

Gli imprenditori sembrano apprezzarne l’attitudine pragmatica e pensano di aver trovato nel figlio di un venditore di tè l’equivalente indiano di Margaret Thatcher, la figlia di un piccolo commerciante. Gli intellettuali invece temono che Modi possa turbare i quasi 200 milioni di musulmani e aprire il vaso di Pandora dei conflitti religiosi in un paese che grazie alla tolleranza e al pluralismo è riuscito a consolidare il miracolo della democrazia.
 

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Justin Trudeau
Anche in Canada c’è un figlio d’arte che vorrebbe seguire le tracce del padre. Cosa non facile quando ci si chiama Trudeau come Pierre Elliott, il politico più carismatico che il Canada abbia conosciuto, primo ministro dal 1968 al 1979 e nuovamente dal 1980 al 1984. A 41 anni, Justin Trudeau sogna di riportare al potere a Ottawa il Partito liberale, giocando la carta dell’umiltà più che quella del cognome. La sua ascensione è stata folgorante: eletto in Parlamento nel 2008 per rappresentare una circoscrizione di Montreal, il 14 aprile scorso è diventato capo del partito, che dopo la cocente sconfitta alle elezioni del 2011 non è neppure più l’opposizione ufficiale al Partito conservatore.

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Stephen Harper

Nel 2015 (o prima) potrebbe sfidare Stephen Harper e i sondaggi sembrano favorevoli per questo brillante maestro di scuola, appassionato di pugilato e beau garçon. La “Trudeaumania” sembra ritornata grazie allo stile oratorio coinvolgente e alla conoscenza degli arcani del potere, frutto forse anche dei 12 anni trascorsi al 24, Sussex Drive. In compenso pochi sono ancora riusciti a capire cosa pensi delle questioni che agitano il Canada. Per il momento sembra sufficiente parlare di nuova leadership, della necessità di sostenere i ceti medi e di fare qualcosa contro il cambiamento climatico. Pronto a citare Goethe («Non abbiate sogni troppo piccoli perché non sono quelli giusti per fare avanzare il genere umano»), svela poco di quali siano i suoi sogni, se non quello di fare di più per i giovani e la loro istruzione. Bilingue (ha vissuto a Vancouver, sulla costa pacifica), crede nel multiculturalismo e nell’unità nazionale, pur senza molta precisione quando si tratta degli strumenti e delle modalità per migliorare i rapporti sempre tesi tra la Belle Province e il resto del Canada.

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Aécio Neves

Aécio Neves al Planalto, il palazzo presidenziale di Brasilia, ci avrebbe già lavorato se il nonno non fosse morto nel 1982, dopo essere stato eletto e prima di assumere l’incarico. Di Tancredo Neves, Aécio era infatti il segretario privato. Anche l’altro nonno (ministro dell’agricoltura di Juscelino Kubitschek) e il padre (deputato) erano politici. Non sorprende che a 53 anni il politico di Belo Horizonte (la città dove la Fiat ha la sua più grande fabbrica al mondo) sia già stato deputato per quattro legislature (e presidente della Camera nel 2001-02), governatore del Minas Gerais per otto anni (rieletto nel 2006 col 77% dei suffragi) e senatore dal 2011.

Pur avendo iniziato la propria carriera politica nella file del Pmdb, il partito centrista e molto pragmatico che accumula tradizionalmente potere anche senza vincere le elezioni, dopo l’impeachment del presidente Fernando Collor de Melo Neves passò al Psdb, il partito social-democratico di Fernando Henrique Cardoso. Come deputato si è fatto conoscere per l’attenzione ai temi dell’etica e della trasparenza, come governatore per la modernizzazione dell’amministrazione statale e la spending review – meno in salari, più in investimenti, come senatore per la proposta di estendere infine le garanzie del codice del lavoro anche ai dipendenti domestici.

Nel 2009 sembrava che avrebbe corso per Planalto – coi colori del Pmdb – ma preferì schierarsi per il Psdb … che però scelse José Serra. Da un paio d’anni è in pre-campagna elettorale, commentando le proteste scatenate dalla Coppa delle Confederazioni e dall’aumento del prezzo dei trasporti urbani. A Dilma ha consigliato umiltà e zuppa di gallina, una tipica espressione mineira. E i giovani, che pure sono scesi in strada a Sao Paulo, preferiscono altre figure: ad esempio il giudice costituzionale Barbosa e l’ecologista Marina Silva.

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Chi invece non ha certo il lusso di una famiglia prestigiosa alle spalle, ma in compenso ha un’idea chiara della pratica, e non solo della teoria, del multiculturalismo, è Kim Jong-suk. O piuttosto Fleur Pellerin, vice-ministro per le piccole e medie imprese, l’innovazione e l’economia digitale, che fu adottata nel 1973 da una famiglia francese quando aveva pochi mesi. Al suo ritorno in Corea lo scorso mese di marzo è stata accolta come una star. Quattro giorni in cui i media del paese del Mattino calmo, in cui l’identità nazionale si definisce strettamente sulla base del sangue, sembravano insaziabili nel descrivere il percorso di una di loro che si è fatta strada in Occidente. Difficile far capire che adesso il suo mestiere consiste nel convincere le multinazionali a «say “oui” to France», cioè al suo vero paese.

Fleur Pellerin
Ma Madame Pellerin si è difesa bene eccome, e in più grazie al suo background ha potuto incontrare le massime autorità coreane, compresa la presidente Park. Un privilegio per un ministro senza portafoglio, che non è rimasto ignoto in Francia dove la visita è stata coperta con grande cura, soprattutto da giornali come Elle e Paris Match. Meno fortuna ha invece avuto quando ha accompagnato il presidente Hollande in Giappone, allorché il protocollo del Palazzo imperiale l’ha scambiata per la moglie di Guillaume Garot, il vice-ministro responsabile per l’agroalimentare.

Laureata dell’Essec, énarque, giovane madre e compagna (in una famiglia recomposée che abita a Montreuil, periferia d’elezione dei bobos) di Laurent Olléon, un altro attore dell’Hollandie (vice-capo di gabinetto del ministro della funzione pubblica, Marylise Lebranchu), la Pellerin ha rischiato di rimanere nella categoria dei “ministri invisibili” in cui un anno fa l’aveva piazzata il Journal de Dimanche. Sapiente utilizzatrice di Facebook e Twitter, è riuscita a farsi conoscere grazie all’accordo storico firmato all’Eliseo tra editori e Google, ha perso una battaglia politica quando Arnaud Montebourg (responsabile per il redressement productif) ha bloccato l’investimento di Yahoo! in Dailymotion, una delle pepite dell’economia digitale d’Oltralpe, e scommette sull’emergenza di un ecosistema dell’innovazione nei quartiers numériques – la misura-faro del programma annunciato a fine luglio da Jean-Marc Ayrault. Spesso ripresa in compagnia del primo ministro e di Montebourg, Fleur Pellerin potrebbe essere capolista del PS alle europee del prossimo anno.

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Stranamente l’unica personalità che non ha incontrato a Seoul è stato Ahn Cheol-soo. Cinquantenne, Ahn è un medico e imprenditore di grande successo, la cui società di software (AhnLab) è agli antipodi dei grandi conglomerati che dominano l’economia coreana. Dopo aver fatto fortuna nel mondo degli affari, inventando un anti-virus che McAfee avrebbe voluto, Ahn è diventato un rispettato professore alla prestigiosa Seoul National University, acquisendo un profilo pubblico sempre più elevato fino a diventare il grande favorito per le elezioni locali del 2011. Alla fine però rinunciò a presentarsi, appoggiando un candidato indipendente minore, che raccoglieva appena il 5% delle intenzioni di voto e che è poi stato eletto sindaco di Seoul.

Ahn Cheol-soo
Pensando di rottamare tutti, alle presidenziali di dicembre 2012 Ahn voleva fare campagna senza un partito alle spalle. Un tentativo fallito e dalle negoziazioni con il centro-sinistra era uscito con le ossa abbastanza rotte. Dopo essersi ritirato dalla corsa presidenziale a fine novembre, decise di appoggiare l’opposizione, senza però mostrare grande entusiasmo per il suo candidato – anzi, lasciando Seoul per gli Stati Uniti proprio la mattina degli scrutini. La luna di miele della nuova presidente Park Geun-hye sembra però durare poco, mentre Ahn potrebbe avere infine deciso di fare seriamente politica presentandosi alle elezioni parziali di ottobre con un nuovo partito. Per il momento ha creato un think tank con Choi Jang-jip, una specie di Stefano Rodotà coreano, e Jang Ha-sung, paladino dei diritti dei piccoli azionisti. Dopo appena tre mesi Choi ha però lasciato Naeil (Domani in coreano), spiegando che il suo ruolo è ispirare, non fare politica.

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Joko Widodo

Con la crescente decentralizzazione, anche in Asia sono sempre più frequenti i maggiorenti locali che acquisiscono popolarità a livello nazionale. Lo scorso ottobre Joko Widodo ha sconfitto il sindaco in carica e ha assunto la guida di Giacarta, circa 20 milioni di abitanti. L’Indonesia sta vivendo un boom senza precedenti, i negozi di lusso si moltiplicano, eppure nella metropoli sono ancora molti a non avere diritto ai servizi pubblici più elementari. Il cinquantatreenne “Jokowi”, come lo chiamano con affetto i suoi fans, non lesina i bagni di folla nelle bidonvilles e le promesse di servizi universali, ma è anche capace di mostrare i muscoli decisionistici, per esempio quando si tratta di espellere dalle strade gli ambulanti che concorrono a rendere il traffico della metropoli indonesiana uno dei più caotici e lenti del mondo. Conscio che la corruzione si annida quasi ovunque in Indonesia, e certamente nei grandi progetti, si oppone alla costruzione della metropolitana, un progetto da 1,3 miliardi di euro cui contrappone quello di una monorotaia – meno costoso, ma limitato al centro.

Widodo sembrerebbe un serial-sindaco – il suo mestiere precedente era appunto sindaco di Solo ed è grazie a questo successo che nel 2012 è salito sul gradino più basso del podio nel World Mayor Project. Anche se non dichiarata per il momento, anzi smentita di continuo (dichiarando di voler portare a termine il mandato cittadino), l’ambizione sembra però quella di concorrere ai massimi vertici nel 2014. Probabilmente coi colori del suo partito, quello Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) condotto da Megawati Sukarnoputri, figlia di Sukarno, primo presidente del paese e a sua volta capo di Stato nel 2001-04.

I sondaggi lo danno favorito, resta da dimostrare se poi abbia l’esperienza per guidare un arcipelago tanto complicato. Onestà e modestia sono indubbie virtù per conquistare le masse, ansiose di partecipare al banchetto della crescita: in Indonesia ci sono più miliardari che in Giappone, ma quasi metà della popolazione (250 milioni) sopravvive con meno di 2 dollari al giorno. Oltre a vincere la resistenza di Megawati, che non ha ancora rinunciato a correre, Widodo dovrà anche convincere i ceti medi a recarsi alle urne. Con una partecipazione bassa, potrebbero vincere candidati con radici nel passato come Aburizal Bakrie o addirittura Prabowo Subianto, un parente di Suharto.

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Un altro sindaco che da grande vorrebbe fare il presidente è Sergio Tomás Massa. Già chief of staff di Cristina Kirchner, pur non avendo concluso gli studi universitari. Il 41enne sindaco di Tigre, un comune chic della provincia di Buenos Aires, poi ha rotto con la Presidenta e portato il Frente Renovador al trionfo nelle primarie peroniste di agosto, a spese del Frente para la Victoria pro-Cristina.

Sergio Tomas Massa
È sopravvissuto all’uragano WikiLeaks: in conversazioni con funzionari americani, definì Néstor Kirchner come “perverso” e “codardo”. In temi di (ben giustificata) Bergoglio-mania, come il pontefice è hincha di San Lorenzo, anche se ha adottato il Tigre come secondo amore e, come vice-presidente del club, ne ha festeggiato gli inattesi successi (secondo posto nel 2007 e 2008, dopo 27 anni di Serie B). Si dice addirittura che la fumata bianca del 13 marzo 2013, che confermò che non solo Dio è argentino, cambiò la storia politica di Sergio Tomás, convincendolo a lasciare il municipio per concorrere alle politiche di quest’anno e magari pure alle presidenziali. E ha una moglie ambiziosa: Malena Galmarini, figlia di due politici peronisti e attualmente assessore per le politiche sociali della giunta del marito.

La strada per la Casa Rosada è ardua, e spesso i colpi bassi non sono per anime sensibili (pochi giorni prima delle primarie il sindaco ha subito uno strano tentativo di furto) ma Massa ha già dimostrato una discreta capacità a navigare nei meandri della politica argentina. È passato dalla destra (Ucedé) alle varie anime del peronismo: il menemismo di Carlos, il duhaldismo e infine il kirchnerismo. Adesso il suo programma elettorale si basa quasi esclusivamente sulla lotta alla delinquenza. Del resto lo diceva proprio Juan Domingo Perón: « Todas las fuerzas son utilizables en nuestro movimiento si son nobles y leales y todos los hombres serán bienvenidos si vienen con lealtad y con sinceridad a servir bajo nuestra bandera ».
 

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Nigel Farage
“Fate entrare i clown!” è la battuta a effetto che Nigel Farage ha utilizzato per celebrare il successo del suo United Kingdom Independence Party (Ukip) alle elezioni locali del 3 maggio. Quasi un quarto dei suffragi (23%) e 147 consiglieri comunali grazie a una campagna condotta all’insegna della lotta contro l’Europa, ma anche la pretesa indistinguibilità tra i tre partiti tradizionali. Per le europee, appuntamento elettorale in cui l’UKIP realizza tradizionalmente i migliori scores, l’attesa è pertanto alta, anche perché nelle ultime sei legislative parziali il partito è arrivato sempre in seconda o terza posizione.

A 49 anni, Farage non è un novizio. Leader dell’Ukip dal 2010, dopo esserlo già stato dal 2006 al 2009, siede al Parlamento Europeo dal 1999, in rappresentanza dell’Inghilterra sudorientale, ed è co-presidente del gruppo Europe of Freedom and Democracy (che conta su sette leghisti e Magdi Cristiano Allam di Io amo l’Italia). Fino al 1992 militava nei Tories, che abbandonò a seguito dell’approvazione del Trattato di Maastricht.

Gioviale e a suo agio nei pub della campagna inglese, Farage è sopravvissuto a un cancro ai testicoli e a un incidente aereo mentre faceva campagna per l’Ukip. Ha lavorato nella finanza – ironia della sorte, soprattutto per società francesi come Credit Lyonnais e Natexis – e si è sposato due volte – altra ironia, la seconda volta con una tedesca. In compenso ha ripetuto più volte che l’Italia non avrebbe mai dovuto integrare l’Eurozona e che l’abbandonerà presto.

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Yair Lapid non è un comico, ma viene lo stesso dal mondo della televisione. L’ex presentatore del telegiornale ha condotto Yesh Atid (C’è un futuro) a un inatteso secondo posto alle elezioni israeliane di gennaio. Come molti dei politici presentati in queste righe, Lapid è il beniamino dei ceti medi, desiderosi di maggiore liberalismo in un’economia ancora oberata dai monopoli, preoccupati per la crescita delle diseguaglianze e della corruzione, stanchi dei privilegi di cui godono gli ebrei ortodossi in cambio del sostegno al centro-destra. Non a caso sono in centinaia di migliaia a seguirlo su Twitter.

Dopo aver aspramente negoziato l’alleanza con Binyamin Netanyahu, è entrato al governo come ministro delle Finanze. Un battesimo del fuoco, anche perché Lapid non è un economista e non è neppure laureato. Un sondaggio condotto dopo la presentazione della Finanziaria per l’anno prossimo, all’insegna dell’austerità, mostra che la strada è in salita: quattro israeliani su cinque non gli danno fiducia per gestire la politica economica nazionale.

Yair Lapid
Yesh Atid vuole restringere l’applicazione dell’esenzione dal servizio militare ed è partigiano della creazione di due stati come soluzione della questione palestinese. Un divorzio però, mantenendo la sovranità dello stato ebraico su Gerusalemme. E Lapid ha anche criticato la politica europea di restringere l’accesso a fondi comunitari da parte di enti israeliani che operano nei territori occupati e la proposta di etichettare i prodotti dei villaggi ebraici nelle aree contese. Il suo timore è che, al posto di rafforzare Abu Mazen e accelerare il processo di pace, queste misure rendano più arditi Hamas e gli islamisti radicali.

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E infine una donna: Mamphela Aletta Ramphele. Il suo curriculum è un sans faut: medico di formazione, ha insegnato all’Università di Città del Capo, dove è stata rettore, prima di diventare Managing Director della Banca mondiale. In più è stata la compagna di Steve Biko, il mitico leader della lotta contro l’apartheid ucciso nel 1977 e cui hanno reso omaggio tanti artisti, da Peter Gabriel ai romani della Banca Bassotti.

Mamphela Alette Ramphele

A febbraio ha annunciato la creazione di un nuovo movimento politico. La piattaforma di Agang (Costruire in Sotho), è apparentemente semplice: lottare contro la corruzione, il nepotismo e il favoritismo che sono diventati endemici durante il lungo regno dell’African National Congress (Anc). Soprattutto perché erano i tratti distintivi anche del Sudafrica razzista degli anni 50-80. Agang non ha una vera struttura partitica, vuole consolidare le forze vive della società, però il rischio è piuttosto di fare esplodere la Democratic Alliance, il principale partito d’opposizione, che malgrado la crescita dei consensi (è arrivata al 24% alle amministrative del 2011) soffre del pregiudizio di essere il partito dei bianchi.

Ramphele, descritta dall’Arcivescovo Desmond Tutu come un «leader coraggioso e guidato da principi», è una figura dominante ed è difficile pensare che si accontenti di un ruolo di rincalzo. Vincere nel 2014 e diventare la prima donna presidente di un grande paese africano è praticamente impossibile. Ma ottenere un risultato onorevole, in un suffragio che comunque dovrebbe vedere l’Anc scendere sotto la barra simbolica del 60% dei voti, sarebbe importante per Ramphele, e soprattutto per il Sudafrica.

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